296ogmtLa vecchiaia è uscita dal segreto intimo, quasi indicibile, delle persone che invecchiano per diventare materia di pubblica discussione e riflessione.
Non perché siamo diventati più teneri con i vecchi, e neppure perché la nostra cultura ha fatto cadere tutti i tabù, ma perché l’ aumento della speranza di vita, che tutti augurano e si augurano pur di esorcizzare la morte, minaccia una catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e assistenziali.
Ma questo interessamento ai problemi della vecchiaia da parte di psicologi, sociologi, medici, e oggi, ultimi benarrivati, gli studiosi di genetica, non deve trarre in inganno. I loro consigli, le loro pianificazioni, le loro ricette, i loro farmaci non hanno come scopo quello di riportare il vecchio, se non al centro, almeno all’ interno della dinamica sociale da cui, nelle società avanzate (che sono poi quelle in cui davvero si invecchia), è stato escluso, ma semplicemente quello di neutralizzarlo con una serie di comfort che lo fanno sentire solo e inutile come prima, ma accudito.
Solo e inutile non per il destino biologico, ma per le condizioni storicoculturali che caratterizzano il nostro tempo, che proprio nella vecchiaia incontra il suo paradosso. Da un lato infatti i progressi della medicina e delle condizioni sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi, dall’ altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha fatto del vecchio un incompetente, non più all’ altezza dei tempi e quindi inutile.
Eppure, oltre al mancato controllo del tempo che, scandito dai ritmi veloci della tecnica, incalza in modo assillante, la nostra cultura efficientista e utilitarista regala al vecchio quella dimensione che gli ha sottratto per tutta la vita, la dimensione della libertà. «Sono condannato a essere libero» diceva Jean-Paul Sartre nei giorni della sua vecchiaia, e non alludeva a quella libertà che molti considerano la prerogativa essenziale dell’ uomo, ma a quella disponibilità infinita di tempo che la nostra società regala ai vecchi, al solo scopo di far loro assaporare quanto questo tempo sia inutilizzabile, quanto nessuno ne abbia davvero bisogno.
E allora occorre Inventare la vecchiaia, come recita il titolo dell’ ultimo libro scritto sull’ argomento dal pedagogista Sergio Tramma (Meltemi, pagg. 120, lire 19.000) dove, opportunamente e anche in modo persuasivo, si ipotizza la vecchiaia come il tempo della «cura di sé».
Ma che significa per davvero «cura di sé»? Se pensiamo alla cura «esteriore», già sui vecchi si sono buttati le industrie della cosmesi, la chirurgia estetica, i proprietari delle palestre, le agenzie di viaggio, le trasmissioni televisive nelle ore mattutine e pomeridiane.
Se invece pensiamo alla cura «interiore» di sé, qui sgombriamo subito il campo da due equivoci: il piacere del ricordo e l’ acquisizione della saggezza, due luoghi comuni inventati dalle cattive coscienze per persuadere i vecchi ad accontentarsi del loro passato, su cui sarebbe cresciuta la loro ipotetica saggezza.
In realtà a una certa età il ricordo è il più disumano degli atti, perché se è vero che tutte le vite invecchiano e si consumano, nel ricordo viviamo nella consumazione e per la consumazione. Non ci limitiamo a subirla, fino ad affondare nel tempo così rovinosamente e talora con tale velocità che non riusciamo neppure ad assaporare il tempo che ci resta. Che cosa potremmo assaporare, se viviamo solo il tempo che irrevocabilmente è stato, se disponiamo solo del passato che è poi la vita trascorsa, consumata, divenuta non vita?
Ma se per il vecchio il passato è una tortura, il presente non è la saggezza, come si è soliti dire quando si è in cerca di vane consolazioni. Gli anni, infatti, non insegnano nulla, semmai rendono ancora più indifesi, perché inducono a pensare che la vita sia contro di noi, sia per così dire la nostra naturale nemica. E cercare una qualsiasi arma per difendersi da essa è la peggiore delle stoltezze. La saggezza, infatti, non dipende dagli anni, né dalla nostra fedeltà ai principi guida della nostra vita, ma da quella visione del mondo che nasce dalla consapevolezza che noi siamo irrimediabilmente mortali, per cui è opportuno: se si è giovani, dimenticare di esserlo (cosa che di solito riesce naturale), se si è vecchi dimenticare tutto, anche il fatto di essere stati giovani (cosa più difficile, ma anche di grande sollievo).
La vecchiaia, infatti, che i progressi della medicina e delle condizioni sociali ci hanno regalato, è dura da vivere non solo per il deterioramento biologico, non solo per i fattori culturali che emarginano chi è inutilmente libero, ma anche, come ci ricorda lo psicoanalista Alberto Spagnoli nel suo libro: E divento sempre più vecchio (Bollati Boringhieri, pagg. 188, lire 28.000), per una serie di destrutturazioni che in età giovanile sarebbero devastanti e al limite della psicosi, mentre nell’ età senile non assumono necessariamente questo aspetto perché arginate dall’ irrigidimento delle abitudini.
La prima destrutturazione è tra l’ Io e il suo corpo: non più veicolo per essere al mondo ma ostacolo da superare per continuare a essere al mondo. La seconda destrutturazione riguarda l’ Io e il mondo circostante, dovuto al fatto che tutti noi ci difendiamo spasmodicamente dalla sola ipotesi di identificarci con un vecchio. Senza identificazione un bambino cade nell’ abisso dell’ autismo, e molti silenzi dei vecchi sono abissi autistici in cui noi li abbiamo fatti precipitare con il nostro silenzio emotivo.
La terza destrutturazione riguarda l’ erotismo e la sessualità. I vecchi infatti cessano di essere riconosciuti come soggetti erotici, e quale amore potrebbe resistere a un continuo misconoscimento, al rifiuto non solo di essere ricambiati ma addirittura riconosciuti come possibili soggetti d’ amore? La psicologia scientifica, così ricca di consigli per i bambini, gli adolescenti, i giovani, gli emarginati non ha speso una parola sull’ erotica senile limitandosi a fornire gli strumenti di «gestione» della vecchiaia e non gli strumenti di «comunicazione».
E così, per essere accettati, i vecchi devono esprimere tutte queste virtù da cui sono dispensati i giovani: devono far tacere il desiderio sessuale che non si estingue con l’ età, devono rinunciare ai contatti corporei che si addicono ai giovani, devono essere allegri ma con misura, devono partecipare alla vita familiare e sociale senza pretendere di essere ascoltati, devono essere autonomi e indipendenti, due metafore per dire «soli».
A tutto ciò si potrebbe obiettare che in fondo nell’ età della tecnica i vecchi sono avvantaggiati da quei compensi protesici che vanno da quelli generali (termosifone, ascensore, telefono) a quelli individuali (dentiera, occhiali, insulina), fino ai più sofisticati (pacemaker, apparecchio acustico, teledrin). Che cosa vogliono di più? Vorrebbero semplicemente non essere costretti a giocare in difesa, rifugiandosi nelle loro abitudini che diventano gli argini della loro sicurezza. Vorrebbero non morire anticipatamente di noia, di indifferenza, di tristezza perché è a loro impedito di esprimere quel potenziale emotivo che li rende ancora in grado di progettare. E soprattutto vorrebbero che la progettazione di cui ancora sono capaci non cadesse nell’ indifferenza, nella compassione, o nell’ accoglienza patetica.
La vecchiaia quindi, prima di un decadimento biologico, è uno stile di vita imposto dagli altri che ai vecchi concedono uno spazio espressivo molto ridotto, oltrepassato il quale il vecchio o è giudicato trascurato, disordinato, sciatto, o ambizioso, vanitoso, ridicolo. Per i vecchi infatti vale la legge del tutto o nulla. Forse perché la prossimità alla morte, che ogni vecchio segnala, attiva in ciascuno di noi quell’ angoscia originaria, iscritta nel nostro destino di mortali, che non trova forma migliore d’ esorcismo se non quella di scaricarsi sui vecchi che impudicamente la rappresentano.
Che ne è a questo punto della depressione senile? La conseguenza del decadimento biologico o una condizione spesso indotta dall’ ambiente circostante quando non addirittura autoimposta? A porsi questo problema è il neuropsichiatra Mario Barucci in Umore e invecchiamento (Idelson, pagg. 136, lire 20.000) dove l’ ipotesi avanzata è che le condizioni affettivo-emotive incidano più di quanto non si creda sull’ inizio dell’ invecchiamento e sulla sua qualità. Già la saggezza popolare sa che: «Il cuore non invecchia mai», ma quante domande del cuore a una certa età ricevono risposta, consentendo quel ricambio emotivo con il mondo che è poi la prima condizione perché una qualsiasi esistenza si senta giustificata?

Lettura

 

 

Intervista al sociologo Zygmunt Bauman

 

acquaenuvolePer una vita ha studiato la «società liquida», quella senza legami stabili, e l’«amore confluente», che dura fin tanto che c’è l’interesse di uno dei due partner. Ma quando pensa all’amore vero, con la A maiuscola, volge lo sguardo a lei, Janina, la moglie che da sessant’anni gli è al fianco.

 
«Io e Janina – racconta Zygmunt Bauman, uno dei più grandi sociologi viventi – sappiamo che stare insieme significa anche sacrificio e accettazione dell’altro, pure quando è faticoso. Ma per noi lo stare insieme, il volerci bene e l’essere uniti “finché morte non ci separi” è una prospettiva molto più bella, che l’essere separati e vivere la libertà dello stare da soli.

 
Per questo credo che il Papa abbia centrato l’obiettivo, decidendo di richiamare la società di oggi, che per definizione evita legami duraturi ed esclusivi, alla totalità dell’amore. È sicuramente un richiamo controcorrente. Ma è tanto più necessario in un’epoca di dittatura del consumismo, dove la “sindrome del consumo” penetra ogni fessura della nostra esistenza, fagocitando in essa anche ciò che c’è di più grande: l’amore

 
Professor Bauman, perché gli uomini d’oggi sono incapaci di amare «per sempre» ?

 
«È una società che si è modellata sull’usa e getta, sul desiderio di consumo, sull’impegnarsi finché si ha voglia, senza assumersi responsabilità di qualsiasi genere. Il consumo come metro di ogni nostra azione non è fatto per elevare la lealtà e la dedizione nostra per l’altro. Al contrario, è pensato per passare in continuazione da un desiderio all’altro, per spegnere in fretta quelli vecchi e creare posti per altri nuovi. In più la clausola della società dei consumi “soddisfatti o rimborsati” è diventata metro di ogni rapporto, di ogni relazione. In questo tritacarne è finito anche l’amore. Ecco perché è sempre più difficile “amare per sempre”».

 
Ma questo s’è tradotto in maggiore libertà per l’uomo moderno?

 
«Questa era la promessa che sta alla base della “nuova società”: la liberazione individuale. Promessa che si è rivelata falsa. Molti, infatti, credono (erroneamente) che la quantità compenserebbe la mancanza di qualità. Ogni relazione è debole, quindi cerchiamo di averne a non finire, in modo che possiamo trovare qua e là qualcosa che ci soddisfi, comprensione o simpatia alla bisogna.
Il fatto è che – come ci ricorda anche Benedetto XVI nell’enciclica – non funziona così. Piuttosto è il contrario. Più le relazioni diventano facili a rompersi e usa e getta, meno c’è motivazione a combattere le difficoltà che lo stare assieme comporta di volta in volta. Dopo tutto, quando due persone s’incontrano, ognuno porta con sè la propria diversa storia personale, che ha bisogno di essere conciliata con l’altro, che a sua volta è differente. E una convivenza di diversi è impensabile senza compromessi e sacrifici».

 
Secondo lei, è possibile che ci sia futuro in questa «fluidità» dei rapporti e quindi anche dell’amore?

 
«È il paradosso della postmodernità liquida. Più si evitano impegni stabili e duraturi per timore di esserne poi vincolati, più sentiamo bisogno invece di relazioni solide e amici disponibili. Però siamo incapaci di fare il passo. Di fronte al “per sempre” ci troviamo impauriti. Solo che, senza un impegno esclusivo e nel tempo, i nostri legami sono fragili e anche il rapporto d’amore risulta esasperatamente insicuro. Questo crea uno stato di ansietà permanente in cui è sprofondato l’uomo d’oggi. Un futuro oscuro e gravido di conseguenze se non ci sarà un cambio di rotta».

 
Benedetto XVI dice però che questo amore «pieno» è possibile. Anzi è il progetto a cui l’uomo e la donna sono chiamati.

 
«Certo. È una questione di scelte, di valori che si attribuiscono allo stare insieme. In ultimo, direi, che è la forza dell’amore che rende il sacrificio per il bene dell’amato qualcosa di naturale, di dolce e di gioioso, invece che un giogo pesante come i più credono.
Agape, cioè il vero amore, quello che noi sogniamo e di cui tutti abbiamo seriamente bisogno per sentirci salvi in un mondo caratterizzato per la sua insicurezza, non può che essere altruista e incondizionato. Da entrambi i lati. E lo sforzo di arrivare a questo, non può che partire sempre dalla mia parte.

 
Il contrario di quanto avviene comunemente oggi, dove si vive nella paura che l’altro decida unilateralmente di rompere il legame, di chiudere una relazione perché non la si ritiene soddisfacente o anche solo per il fatto di voler sperimentare emozioni nuove».

 
Benedetto XVI insiste anche sul non separare eros da agape.

 
«Questo è l’altro grande errore del nostro tempo: l’idea di separare il sesso dall’amore e dai legami spirituali e dalle responsabilità morali che esso comporta. È l’idea che passa quando gli esperti ci dicono che innamorarsi è solo una reazione chimica che attiva la produzione nel corpo di dopamina. Quando c’è questo, c’è amore. Quando finisce, non ce n’è più. Ridotto così, si pensa che il sesso possa essere praticato come un qualunque oggetto di consumo di questa società dei consumi. In realtà eros non si può separare da agape, pena il tradirlo».

 
Un ultima domanda: cosa ha pensato del richiamo del Papa a «Dio amore»?

 
«È forse il messaggio di cui l’umanità ha bisogno più di ogni altro. Vedo all’orizzonte il pericolo enorme della “religionizzazione della politica”, dove la religione, il richiamo a Dio, è preso dalla politica per combattere gli altri. È una minaccia grave per il futuro dell’umanità, per la sua sopravvivenza fisica ma anche per la capacità di far fronte assieme ai gravi problemi ancora irrisolti di miseria umana e di aggressività causata dalla miseria. Bene ha fatto Papa Benedetto a lanciare alto questo monito: Dio, che ha dato il comandamento dell’amore, ci impedisce di usare il suo nome per combatterci gli uni contro gli altri».

Vi potreste chiedere perché mi metto a scrivere di famiglia e società quando i miei interessi e la mia occupazione riguardano il disagio psichico.
E’ vero, i disturbi psicologici sono la mia materia, ma alcuni disturbi sono il prodotto del mondo in cui viviamo, di conseguenza parlare di famiglia e società aiuta a comprendere meglio e perciò curare meglio i mali e le sofferenze, che sono figli di questa nostra società.

 

 

Oggi per esempio sono particolarmente diffusi i disturbi d’ansia e gli attacchi di panico, le depressioni dovute più a una perdita di senso che ad altre perdite, e diverse forme di dipendenza .

Chiaramente l’elemento soggettivo, il carattere e la personalità dell’individuo sono fondamentali in ogni tipo di disagio, tuttavia possiamo chiederci perché questi disturbi siano così frequenti nella nostra società e nel nostro modello di famiglia e non in altre.

 
Società e Famiglia che va

 
Siamo passati da un mondo pieno di regole e norme da rispettare, pena la condanna e l’esclusione sociale, a un mondo con regole e norme che si possono tranquillamente non osservare perché la pena non c’è più, e se c’è, non conta niente.

Nella famiglia di ieri non si poteva discutere se una determinata norma fosse giusta o no, era così e basta, l’autorità paterna era indiscussa e moglie e figli dovevano sottostare alla sua volontà.
La maggior parte dei giovani rifiutava e si sentiva soffocare da tutte quelle imposizioni che imperavano sia a casa, sia a scuola e nella società in generale.

 
Ai loro occhi erano principi e comandamenti privi di senso, che cercavano di mantenere in vita a tutti i costi un mondo ormai scomparso.

Si sentivano soffocare e avevano il cuore “pieno” dell’intenso desiderio, e della volontà di cambiare quelle regole senza valore e di abbattere tutte quelle inutili limitazioni, volevano conquistare la libertà di fare e dire tutte le cose che avevano dentro e che fermamente credevano più giuste di quelle dei loro padri.

 

 

Tuttavia il vecchio mondo un pregio l’aveva: non si cadeva quasi mai, perché ad ogni angolo c’era un appoggio, un sostegno, che indicava in modo chiaro la via da seguire, dov’era il bene e dov’era il male, il giusto e l’ingiusto.
Questi appoggi erano “la parola” della Chiesa, della Scuola, della Famiglia, dei Partiti, dello Stato, degli uomini di Cultura, parole chiare e trasparenti alle quali “i padri” credevano fermamente mentre “i figli” criticavano duramente e volevano sostituirle con altre, altrettanto chiare, ma completamente diverse.
Siamo passati da un mondo troppo pieno a un mondo troppo vuoto.

 

 

I “perché” della disfatta della famiglia patriarcale.

 
Perché dal punto di vista legale, politico e culturale sono state abolite le differenze tra i sessi e le generazioni, maschi e femmine, giovani e adulti sono stati riconosciuti individui tutti uguali, con gli stessi diritti. E’ così decretata la morte del pater familias e la fine della famiglia patriarcale organizzata in modo gerarchico, è arrivato il tempo della famiglia democratica.
Perché con la scoperta della pillola anticoncezionale il sesso è stato sdoganato dalla procreazione, che smette di essere l’unico o il principale scopo della sessualità.

 
Un’importante conseguenza è stata la libertà sessuale della donna. La sessualità femminile non è più circoscritta al matrimonio, ma oggi le donne come gli uomini hanno relazioni sessuali anche fuori dal matrimonio.
Perché la procreazione si è sdoganata dalla sessualità, con la fecondazione assistita si possono avere figli senza avere rapporti sessuali. La sessualità, libera, si può rivolgere ad altri scopi.
Perché i figli avuti all’interno del matrimonio e fuori dal matrimonio sono percepiti e riconosciuti come uguali.
Perché non c’è differenza nella percezione sociale e soggettiva tra le famiglie di coppie conviventi e quelle di coppie sposate.

 
Perché la diminuzione della fertilità e della prolificità e perciò del rapporto numerico tra genitori e figli ha profondamente trasformato i modi di fare ed essere “genitori” e “figli”.
Perché la coppia con o senza figli, scomparsa la disapprovazione sociale e l’obbligo di restare unita, liberamente si separa quando viene meno l’accordo o subentra un nuovo amore.

 
Perché le separazioni oggi molto frequenti producono la formazione di nuove coppie/famiglie con figli che transitano da una nuova famiglia all’altra e che finiscono per avere più famiglie.
Perché sfumano i confini della famiglia, un tempo ben definiti da chiari rapporti di parentela basati su legami di sangue, oggi sempre più mobili e allargati o ristretti nel caso delle famiglie composte da un solo genitore e figli.
Perché nelle nuove famiglie i legami di sangue contano sempre meno rispetto alle funzioni genitoriali che possono essere assolte da nuovi padri o madri qualora quelli naturali e legali siano carenti.

 
Perché a causa dell’allungamento della vita più generazioni si trovano a coesistere nello stesso arco di tempo. Nelle famiglie infatti è sempre più comune la presenza dei nonni e spesso anche dei bisnonni . Nonni che nei confronti dei nipoti assolvono compiti e funzioni come quelle dei genitori, con una sovrapposizione di ruoli che rende indefiniti e confusi i confini tra generazioni diverse.

 
A tutti questi “perché” possiamo aggiungere la comparsa delle coppie e delle famiglie omosessuali, e della ancora vietata e discussa fecondazione eterologa.
E’perciò davvero inutile rimpiangere la famiglia di un tempo, perché come non può ritornare il passato, così non può ritornare la famiglia di ieri.

 
Società e Famiglia che viene

 
Il problema nel mondo di oggi, è il vuoto, si è sempre sul punto di cadere. I sostegni e gli appoggi di ieri, “la parola” della Chiesa, della Scuola, della Famiglia, dei Partiti, dello Stato, degli uomini di Cultura, che a prima vista sembrano ancora in piedi, si sono svuotati di ogni senso e valore, simulacri sopravvissuti a se stessi, sono fatti di carta velina, appena li tocchi vanno a terra e noi con loro.

 
E’ rimasto il nome, la forma, ma la sostanza si è dispersa, disintegrata, continuano a dire quale è il bene e quale il male, quale il giusto e quale l’ingiusto, ma sono parole al vento che non ascolta più nessuno, aria fritta.
La libertà oggi è qui, ma è una libertà vuota, inutile, perchè non c’è niente da cui desideriamo o vogliamo liberarci, non ci sono catene che ci bloccano, né nuove “parole”sogno/speranza/progetto da affermare e realizzare, e così della libertà non sappiamo che farcene, è un inutile lusso.

 
Perse le “parole-idee” della passione e del desiderio di libertà e cambiamento che un tempo riempivano il cuore, oggi abbiamo le “cose”, centinaia di cose. Possiamo riempirci di cose, di status-symbol, di denaro- potere, di tutto di più.
Nel nostro mondo quasi tutto si può comprare o vendere, quasi tutto è merce. Non si vendono solo cose, oggetti, oggi si può vendere anche ciò che mai prima d’ora era stato in vendita come gli organi, reni, fegati, bambini, “valori”, ideali, come per esempio la “verginità” , un tempo intoccabile tabù, oggi merce più o meno costosa, oppure il “sapere certificato”, come la laurea o il diploma e poi altro e altro ancora…

 
Ma la merce è silente, non possiede le “ parole-idee” che nutrono la mente e il cuore, la merce possiede i costi, i prezzi, ha “le parole-denaro” che non “parlano”, ma “si vedono”, anzi sono fatte per essere guardate.
E così sono le “ cose”, o meglio la firma sulle “cose” che ci rendono individui visibili, firmati, marchiati, identificabili, non le azioni o le idee.

 
La firma è onnipresente, le borse prima di essere borse, sono un nome, i vestiti non sono più di lana o di seta etc., ma di quella firma o quell’altra, anche il cibo è firmato, non si va più a mangiare il pesce o la fiorentina, ma si va da….
Sembriamo tanto evoluti, ma in fondo ci comportiamo come gli uomini delle società primitive che credevano che portare, toccare o avere qualcosa di appartenente a un altro essere umano, animale o naturale, li rendesse simili a questo “altro”, li facesse partecipi della sua natura.

 
Essere visti, guardati, visibili, a quanta più gente è possibile è uno dei grandi miti del nostro tempo. Ma dietro al desiderio di essere visti, non c’è niente , non c’è un motivo, un perché, uno scopo, “voglio essere visto per essere visto”.
Soli, fuori nel mondo, nel vuoto di significati che si riflette dentro, senza alcuna rete di protezione, in cerca di appoggi che si rivelano carta velina, siamo costantemente preda della paura di cadere, della paura di sprofondare nel vuoto.

 
Assolutamente appropriato è il nome che Bauman ha dato alla nostra società, società liquida l’ha chiamata. Quali percorsi-progetti rivolti al futuro, quali prospettive di costruire, è possibile tracciare in un mondo liquido? Nessuno.
La nostra società non ci può offrire alcuna sicurezza o certezza a cui aggrapparci, le zattere sono finite.
Le nostre relazioni di coppia e famigliari sono instabili, spesso fragili, Le reti di amicizie sono mobili, seguono l’onda. Il posto di lavoro, la speranza stessa di trovare un lavoro è diventato un miraggio. Di conseguenza altrettanto incerta e labile e vulnerabile sono la nostra autostima e fiducia in noi stessi.

 
I sogni e le grandi aspettative di un tempo sono stati sostituiti dal panico di “restare indietro”, di “perdere il treno”, di “essere lasciati. La paura è entrata dentro di noi, e una volta dentro si nutre di se stessa, cresce e tinge dei suoi colori la nostra vita d’ogni giorno.

 
I “mali” di oggi

 
Ma dove c’è la paura c’è l’ansia: l’ansia di cadere, l’ansia di non trovare la strada, l’ansia di farcela, l’ansia di essere o di restare soli, l’ansia di riuscire a essere visti, l’ansia di svelare agli altri le nostre paure, l’ansia di essere in grado, l’ansia di sbagliare…..Attacchi di panico, e disturbi d’ansia sono tra i figli preferiti della nostra società.
Accanto a loro un posto d’onore spetta alle dipendenze patologiche, vani ed illusori tentativi di riempire il vuoto che abbiamo dentro, e che identico ritroviamo fuori, perchè fuori c’è solo merce.

 
Ma poichè il vuoto richiede di essere riempito, ci riempiamo di “cose” , facciamo compulsivi e irresistibili acquisti di oggetti privi di senso, perché non ci servono, non ne abbiamo bisogno e neppure li desideriamo, li accumuliamo e subito dimentichiamo.
Non ci servono, ma ci rendono schiavi, s’impadroniscono di noi e della nostra libertà di individui in grado di scegliere e decidere.

 
Internet può diventare una fissazione, un’ossessione che occupa ogni spazio della mente: non si riesce a pensare ad altro se non al momento che, acceso il computer , potremo dimenticarci di noi e attraverso il gioco, il sesso, i social, etc…potremo inventarci un’altra vita, che spesso diventa più reale e importante di quella vera alla quale diventa sempre più difficile dare un senso.
L’alcool e le sostanze più varie dalla cocaina alle pasticche eccitanti o calmanti ci fanno sentire, invece che persi e spaesati, dei super-eroi. Svaniscono ansie e paure e il mondo invece che un abisso che può inghiottirci diventa per poche ore il teatro delle nostre gesta.
Alla fine invece che uomini liberi, liberi da vincoli, regole, imperativi, codici morali di comportamento ed educazione, senza rendercene conto ci trasformiamo in servi, schiavi di noi stessi, che siamo il peggior padrone che ci sia.

zitellaC’erano una volta le zitelle
Le zitelle erano le donne che nessun uomo aveva voluto, oppure le donne che, perduto il loro amore, avevano scelto di vivere nel suo ricordo. Nell’immaginario c’erano due tipi di zitelle: quelle segaligne e severe, inacidite dall’invidia e dal livore e quelle ingenue e infantili, tutte trine e merletti, la zia dolce ed affettuosa dei bambini di tutta la famiglia.
Oggi le zitelle sono scomparse, al loro posto ci sono le singles per scelta.

 

 

Acide o tenere, le donne sole che non si sono mai sposate, sono tutte singles per scelta. E nell’immaginario la single per scelta, è una donna autonoma e indipendente, con una vita divertente e brillante, con la possibilità di spendere, è una donna libera insomma.
Libera di fare cosa? A volte solo di lavorare per vivere, a volte solo di essere sola, a volte di vivere pienamente, dipende dal carattere della persona, dalla sua storia.Ma questi sono gli scherzi dell’immaginario.
La libertà da qualsiasi legame o vincolo, questo bene così agognato nel nostro tempo, è come ogni altra cosa una medaglia a due facce, che mi ricorda tanto il vecchio detto: “Chi ha i denti non ha il pane, chi ha il pane non ha i denti.”

Intervista al sociologo Zygmunt Bauman

acquaenuvolePer una vita ha studiato la «società liquida», quella senza legami stabili, e l’«amore confluente», che dura fin tanto che c’è l’interesse di uno dei due partner. Ma quando pensa all’amore vero, con la A maiuscola, volge lo sguardo a lei, Janina, la moglie che da sessant’anni gli è al fianco.
«Io e Janina – racconta Zygmunt Bauman, uno dei più grandi sociologi viventi – sappiamo che stare insieme significa anche sacrificio e accettazione dell’altro, pure quando è faticoso. Ma per noi lo stare insieme, il volerci bene e l’essere uniti “finché morte non ci separi” è una prospettiva molto più bella, che l’essere separati e vivere la libertà dello stare da soli.
Per questo credo che il Papa abbia centrato l’obiettivo, decidendo di richiamare la società di oggi, che per definizione evita legami duraturi ed esclusivi, alla totalità dell’amore. È sicuramente un richiamo controcorrente. Ma è tanto più necessario in un’epoca di dittatura del consumismo, dove la “sindrome del consumo” penetra ogni fessura della nostra esistenza, fagocitando in essa anche ciò che c’è di più grande: l’amore

 

 

Professor Bauman, perché gli uomini d’oggi sono incapaci di amare «per sempre» ?

 

 

«È una società che si è modellata sull’usa e getta, sul desiderio di consumo, sull’impegnarsi finché si ha voglia, senza assumersi responsabilità di qualsiasi genere. Il consumo come metro di ogni nostra azione non è fatto per elevare la lealtà e la dedizione nostra per l’altro. Al contrario, è pensato per passare in continuazione da un desiderio all’altro, per spegnere in fretta quelli vecchi e creare posti per altri nuovi. In più la clausola della società dei consumi “soddisfatti o rimborsati” è diventata metro di ogni rapporto, di ogni relazione. In questo tritacarne è finito anche l’amore. Ecco perché è sempre più difficile “amare per sempre”».

 

 

Ma questo s’è tradotto in maggiore libertà per l’uomo moderno?

 

 

«Questa era la promessa che sta alla base della “nuova società”: la liberazione individuale. Promessa che si è rivelata falsa. Molti, infatti, credono (erroneamente) che la quantità compenserebbe la mancanza di qualità. Ogni relazione è debole, quindi cerchiamo di averne a non finire, in modo che possiamo trovare qua e là qualcosa che ci soddisfi, comprensione o simpatia alla bisogna.
Il fatto è che – come ci ricorda anche Benedetto XVI nell’enciclica – non funziona così. Piuttosto è il contrario. Più le relazioni diventano facili a rompersi e usa e getta, meno c’è motivazione a combattere le difficoltà che lo stare assieme comporta di volta in volta. Dopo tutto, quando due persone s’incontrano, ognuno porta con sè la propria diversa storia personale, che ha bisogno di essere conciliata con l’altro, che a sua volta è differente. E una convivenza di diversi è impensabile senza compromessi e sacrifici».

 

 

Secondo lei, è possibile che ci sia futuro in questa «fluidità» dei rapporti e quindi anche dell’amore?

 

 

«È il paradosso della postmodernità liquida. Più si evitano impegni stabili e duraturi per timore di esserne poi vincolati, più sentiamo bisogno invece di relazioni solide e amici disponibili. Però siamo incapaci di fare il passo. Di fronte al “per sempre” ci troviamo impauriti. Solo che, senza un impegno esclusivo e nel tempo, i nostri legami sono fragili e anche il rapporto d’amore risulta esasperatamente insicuro. Questo crea uno stato di ansietà permanente in cui è sprofondato l’uomo d’oggi. Un futuro oscuro e gravido di conseguenze se non ci sarà un cambio di rotta».

 

 

Benedetto XVI dice però che questo amore «pieno» è possibile. Anzi è il progetto a cui l’uomo e la donna sono chiamati.

 

 

«Certo. È una questione di scelte, di valori che si attribuiscono allo stare insieme. In ultimo, direi, che è la forza dell’amore che rende il sacrificio per il bene dell’amato qualcosa di naturale, di dolce e di gioioso, invece che un giogo pesante come i più credono.
Agape, cioè il vero amore, quello che noi sogniamo e di cui tutti abbiamo seriamente bisogno per sentirci salvi in un mondo caratterizzato per la sua insicurezza, non può che essere altruista e incondizionato. Da entrambi i lati. E lo sforzo di arrivare a questo, non può che partire sempre dalla mia parte.
Il contrario di quanto avviene comunemente oggi, dove si vive nella paura che l’altro decida unilateralmente di rompere il legame, di chiudere una relazione perché non la si ritiene soddisfacente o anche solo per il fatto di voler sperimentare emozioni nuove».

 

 

Benedetto XVI insiste anche sul non separare eros da agape.

 

 

«Questo è l’altro grande errore del nostro tempo: l’idea di separare il sesso dall’amore e dai legami spirituali e dalle responsabilità morali che esso comporta. È l’idea che passa quando gli esperti ci dicono che innamorarsi è solo una reazione chimica che attiva la produzione nel corpo di dopamina. Quando c’è questo, c’è amore. Quando finisce, non ce n’è più. Ridotto così, si pensa che il sesso possa essere praticato come un qualunque oggetto di consumo di questa società dei consumi. In realtà eros non si può separare da agape, pena il tradirlo».

 

 
Un ultima domanda: cosa ha pensato del richiamo del Papa a «Dio amore»?

 

 

«È forse il messaggio di cui l’umanità ha bisogno più di ogni altro. Vedo all’orizzonte il pericolo enorme della “religionizzazione della politica”, dove la religione, il richiamo a Dio, è preso dalla politica per combattere gli altri. È una minaccia grave per il futuro dell’umanità, per la sua sopravvivenza fisica ma anche per la capacità di far fronte assieme ai gravi problemi ancora irrisolti di miseria umana e di aggressività causata dalla miseria. Bene ha fatto Papa Benedetto a lanciare alto questo monito: Dio, che ha dato il comandamento dell’amore, ci impedisce di usare il suo nome per combatterci gli uni contro gli altri».

296ogmtLa vecchiaia è uscita dal segreto intimo, quasi indicibile, delle persone che invecchiano per diventare materia di pubblica discussione e riflessione
Non perché siamo diventati più teneri con i vecchi, e neppure perché la nostra cultura ha fatto cadere tutti i tabù, ma perché l’ aumento della speranza di vita, che tutti augurano e si augurano pur di esorcizzare la morte, minaccia una catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e assistenziali.

Ma questo interessamento ai problemi della vecchiaia da parte di psicologi, sociologi, medici, e oggi, ultimi benarrivati, gli studiosi di genetica, non deve trarre in inganno. I loro consigli, le loro pianificazioni, le loro ricette, i loro farmaci non hanno come scopo quello di riportare il vecchio, se non al centro, almeno all’ interno della dinamica sociale da cui, nelle società avanzate (che sono poi quelle in cui davvero si invecchia), è stato escluso, ma semplicemente quello di neutralizzarlo con una serie di comfort che lo fanno sentire solo e inutile come prima, ma accudito.

Solo e inutile non per il destino biologico, ma per le condizioni storicoculturali che caratterizzano il nostro tempo, che proprio nella vecchiaia incontra il suo paradosso. Da un lato infatti i progressi della medicina e delle condizioni sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi, dall’ altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha fatto del vecchio un incompetente, non più all’ altezza dei tempi e quindi inutile.

Eppure, oltre al mancato controllo del tempo che, scandito dai ritmi veloci della tecnica, incalza in modo assillante, la nostra cultura efficientista e utilitarista regala al vecchio quella dimensione che gli ha sottratto per tutta la vita, la dimensione della libertà. «Sono condannato a essere libero» diceva Jean-Paul Sartre nei giorni della sua vecchiaia, e non alludeva a quella libertà che molti considerano la prerogativa essenziale dell’ uomo, ma a quella disponibilità infinita di tempo che la nostra società regala ai vecchi, al solo scopo di far loro assaporare quanto questo tempo sia inutilizzabile, quanto nessuno ne abbia davvero bisogno.

E allora occorre Inventare la vecchiaia, come recita il titolo dell’ ultimo libro scritto sull’ argomento dal pedagogista Sergio Tramma (Meltemi, pagg. 120, lire 19.000) dove, opportunamente e anche in modo persuasivo, si ipotizza la vecchiaia come il tempo della «cura di sé».

Ma che significa per davvero «cura di sé»? Se pensiamo alla cura «esteriore», già sui vecchi si sono buttati le industrie della cosmesi, la chirurgia estetica, i proprietari delle palestre, le agenzie di viaggio, le trasmissioni televisive nelle ore mattutine e pomeridiane.
Se invece pensiamo alla cura «interiore» di sé, qui sgombriamo subito il campo da due equivoci: il piacere del ricordo e l’ acquisizione della saggezza, due luoghi comuni inventati dalle cattive coscienze per persuadere i vecchi ad accontentarsi del loro passato, su cui sarebbe cresciuta la loro ipotetica saggezza.

In realtà a una certa età il ricordo è il più disumano degli atti, perché se è vero che tutte le vite invecchiano e si consumano, nel ricordo viviamo nella consumazione e per la consumazione. Non ci limitiamo a subirla, fino ad affondare nel tempo così rovinosamente e talora con tale velocità che non riusciamo neppure ad assaporare il tempo che ci resta. Che cosa potremmo assaporare, se viviamo solo il tempo che irrevocabilmente è stato, se disponiamo solo del passato che è poi la vita trascorsa, consumata, divenuta non vita?
Ma se per il vecchio il passato è una tortura, il presente non è la saggezza, come si è soliti dire quando si è in cerca di vane consolazioni. Gli anni, infatti, non insegnano nulla, semmai rendono ancora più indifesi, perché inducono a pensare che la vita sia contro di noi, sia per così dire la nostra naturale nemica.

 

 

E cercare una qualsiasi arma per difendersi da essa è la peggiore delle stoltezze. La saggezza, infatti, non dipende dagli anni, né dalla nostra fedeltà ai principi guida della nostra vita, ma da quella visione del mondo che nasce dalla consapevolezza che noi siamo irrimediabilmente mortali, per cui è opportuno: se si è giovani, dimenticare di esserlo (cosa che di solito riesce naturale), se si è vecchi dimenticare tutto, anche il fatto di essere stati giovani (cosa più difficile, ma anche di grande sollievo).
La vecchiaia, infatti, che i progressi della medicina e delle condizioni sociali ci hanno regalato, è dura da vivere non solo per il deterioramento biologico, non solo per i fattori culturali che emarginano chi è inutilmente libero, ma anche, come ci ricorda lo psicoanalista Alberto Spagnoli nel suo libro: E divento sempre più vecchio (Bollati Boringhieri, pagg. 188, lire 28.000), per una serie di destrutturazioni che in età giovanile sarebbero devastanti e al limite della psicosi, mentre nell’ età senile non assumono necessariamente questo aspetto perché arginate dall’ irrigidimento delle abitudini.
La prima destrutturazione è tra l’ Io e il suo corpo: non più veicolo per essere al mondo ma ostacolo da superare per continuare a essere al mondo. La seconda destrutturazione riguarda l’ Io e il mondo circostante, dovuto al fatto che tutti noi ci difendiamo spasmodicamente dalla sola ipotesi di identificarci con un vecchio. Senza identificazione un bambino cade nell’ abisso dell’ autismo, e molti silenzi dei vecchi sono abissi autistici in cui noi li abbiamo fatti precipitare con il nostro silenzio emotivo.
La terza destrutturazione riguarda l’ erotismo e la sessualità. I vecchi infatti cessano di essere riconosciuti come soggetti erotici, e quale amore potrebbe resistere a un continuo misconoscimento, al rifiuto non solo di essere ricambiati ma addirittura riconosciuti come possibili soggetti d’ amore? La psicologia scientifica, così ricca di consigli per i bambini, gli adolescenti, i giovani, gli emarginati non ha speso una parola sull’ erotica senile limitandosi a fornire gli strumenti di «gestione» della vecchiaia e non gli strumenti di «comunicazione».
E così, per essere accettati, i vecchi devono esprimere tutte queste virtù da cui sono dispensati i giovani: devono far tacere il desiderio sessuale che non si estingue con l’ età, devono rinunciare ai contatti corporei che si addicono ai giovani, devono essere allegri ma con misura, devono partecipare alla vita familiare e sociale senza pretendere di essere ascoltati, devono essere autonomi e indipendenti, due metafore per dire «soli».
A tutto ciò si potrebbe obiettare che in fondo nell’ età della tecnica i vecchi sono avvantaggiati da quei compensi protesici che vanno da quelli generali (termosifone, ascensore, telefono) a quelli individuali (dentiera, occhiali, insulina), fino ai più sofisticati (pacemaker, apparecchio acustico, teledrin). Che cosa vogliono di più? Vorrebbero semplicemente non essere costretti a giocare in difesa, rifugiandosi nelle loro abitudini che diventano gli argini della loro sicurezza. Vorrebbero non morire anticipatamente di noia, di indifferenza, di tristezza perché è a loro impedito di esprimere quel potenziale emotivo che li rende ancora in grado di progettare. E soprattutto vorrebbero che la progettazione di cui ancora sono capaci non cadesse nell’ indifferenza, nella compassione, o nell’ accoglienza patetica.
La vecchiaia quindi, prima di un decadimento biologico, è uno stile di vita imposto dagli altri che ai vecchi concedono uno spazio espressivo molto ridotto, oltrepassato il quale il vecchio o è giudicato trascurato, disordinato, sciatto, o ambizioso, vanitoso, ridicolo. Per i vecchi infatti vale la legge del tutto o nulla. Forse perché la prossimità alla morte, che ogni vecchio segnala, attiva in ciascuno di noi quell’ angoscia originaria, iscritta nel nostro destino di mortali, che non trova forma migliore d’ esorcismo se non quella di scaricarsi sui vecchi che impudicamente la rappresentano.
Che ne è a questo punto della depressione senile? La conseguenza del decadimento biologico o una condizione spesso indotta dall’ ambiente circostante quando non addirittura autoimposta? A porsi questo problema è il neuropsichiatra Mario Barucci in Umore e invecchiamento (Idelson, pagg. 136, lire 20.000) dove l’ ipotesi avanzata è che le condizioni affettivo-emotive incidano più di quanto non si creda sull’ inizio dell’ invecchiamento e sulla sua qualità. Già la saggezza popolare sa che: «Il cuore non invecchia mai», ma quante domande del cuore a una certa età ricevono risposta, consentendo quel ricambio emotivo con il mondo che è poi la prima condizione perché una qualsiasi esistenza si senta giustificata?

specchio

Il racconto di un paziente

 

 

Scusi posso chiederle una cosa?
Si, mi dica..
Posso abbracciarla?
E ci siamo abbracciati
E lo specchio, uno specchio purissimo, si è infranto
Mia madre mi ha chiesto: ma questa psicologa.. non l’ho mai conosciuta! Perché non me l’hai fatta conoscere!?
Bè, se vogliamo, neanch’io l’ho conosciuta
Lei teneva lo specchio in mano, di fronte a me
E dietro lo specchio non si vede niente
E da quando si è rotto lo specchio, lei non c’è più.
E sono rimasto solo io.
Stavolta con me stesso, però.

Sì, perché quando ci sono andato, dico da lei, dalla psicologa, da questa psicologa, io non ero me stesso, non sapevo più chi ero, ero a pezzi (in senso letterale), facevo cose strane, non mi riconoscevo più.
E chiedevo agli altri di accorgersi di me, della mia disperazione.. e, disperato, mi esibivo. Sì, ero un esibizionista. Di quelli che vanno in giro e si spogliano. Avevo un insana voglia di liberarmi di qualcosa, di un dolore che abitava la mia carne e che non riuscivo più a levarmi di dosso.. e allora irrefrenabilmente danzavo sopra la macchina, nel mezzo di un acquazzone, nudo, nel pieno della notte..

A mia mamma questo l’ho raccontato. Ma secondo me non l’ha capito. Non ci crederà. Avrà pensato che stavo parlando di qualcun altro.
Quello in effetti non sono io. O meglio sono io che mi sono perso. Sono l’altro io, quell’altro io che non parlava con me stesso.
Col corpo non mi sentivo libero.
La mia omosessualità era ancora incarcerata nel sentimento della vergogna. “Col corpo capisco” dice il titolo di un libro. Io non potevo capire. Con la mente non mi sentivo libero.

Non potevo vivere l’amore meraviglioso di cui tutti parlavano. Al massimo di segreto. Sì, quel segreto che ti incarcera di vergogna. Come quello che hai quando sei un esibizionista
Mio padre = vergogna di me.
Quante volte avevo mentito a mia madre per non dirle che andavo dove mi vergognavo di andare.. nei locali gay.. non volevo mentirle.. ma sono stato costretto..
e il dolore si fa..
e allora piango..
e io mi accorgo che, raccontandomi allo specchio, posso ricominciare ad essere me stesso, perché è come se le due parti di me, per un momento, si parlassero, come se mi “riflettessi” allo specchio
e il dolore si sfa..

e lo specchio, sì, dico lei, la psicologa, mi dice: “Forse lei ha pianto troppo poco..”
e da allora mi sento libero di raccontarmi e, come un fiume in piena, affronto cose che non ho mai affrontato (e piango.. piango..)
E io, il vero io intendo, quello che avevo nascosto, si muove
Conosce una nuova libertà
E comincia a sognare

 

 

”la natura ci offre la condizione di sogno, il che consente al nostro corpo e alla nostra mente quella libertà di cui esse hanno assoluto bisogno” (Magritte)
E navigo finalmente in quel mare che è l’inconscio.. anche se mi fa paura.. anche se mi fa dolore
E mi capitava di stare male
E mi dicevo: ecco l’ora di volersi bene!
Un giorno ho chiesto al mio specchio: ma lei, che ha tanti libri, che ha letto tanto.. cosa mi consiglia di leggere..?
“Potrei consigliarle libri del settore, specialistici, ma se le devo dire quelli che mi hanno insegnato di più sono i romanzi..”

..i romanzi.. proprio quelli che non riuscivo a leggere.. preferivo i saggi.. con i saggi ti sforzi tanto a pensare.. a capire.. ma non basta
I romanzi contengono invece il vero io, possono sognare, possono spaziare come vogliono e l’uomo, dentro il romanzo, ci sta per intero..
Il romanzo è diventato il mio secondo specchio..
Ti fa capire che non c’è dolore che non sia stato già cantato..
Ti fa capire che la nostra immaginazione è spesso lontana dalla realtà..(e dire che il romanzo è finzione!)
E allora mi spoglio, mi spoglio davvero, del dolore, delle coltri di odio che mi ero costruito contro di me..
E di incanto, senza neanche volerlo, mi accorgo che non mi spoglio più
Che stavolta lo specchio è nelle mie mani
Che lo specchio è diventata la realtà stessa

Che la realtà è dunque nelle mie mani
E che finalmente ho imparato a vivere
Viaggio con il mio specchio
Mi rifletto nel mondo
Dovunque io sia
Viaggio con me stesso..

in-gabbiacome-un-uccello-in-gabbiami-lascio-c-L-80BlVUIl racconto di un paziente

 

 

Azzurro come il colore del cielo che vorresti vedere all’uscita di una galleria…, azzurro come lo stato d’animo con cui vorresti affrontare la vita e i suoi problemi…, azzurro è quel colore che da troppo tempo stai cercando ma non riesci mai a trovare.

 

 

Quotidianamente combatti col tuo addome: è lui il “guardiano”, è lui che decide tutto… Hai fatto esami e sei sano come un pesce, hai provato ogni tipo di terapia, ma se pur con alcuni miglioramenti, è ancora lui a dettar legge, hai provato a conviverci o ad ignorarlo e sei andato avanti da solo, ma comunque lui è lì onnipresente.

 

 

E’ lui che ti filtra le emozioni, è lui che non ti fa sentire fino in fondo un abbraccio, è lui che talvolta ti blocca quasi completamente in mezzo alla gente, è lui che raccoglie maggiormente le tue tensioni, è lui che decide se avrai ansia ed è sempre lui che quando è più sciolto decide generosamente di regalarti momenti di maggior tranquillità e serenità.

 

 

E’ questo incredibile impiego di energie, tra periodi di alti e bassi, che ti impedisce di prenderti definitivamente in mano la tua vita e ne soffri.

E’ quel non definito disagio che ti porti dentro fin da bambino, quel velo di tristezza, di solitudine e di abbandono che immancabilmente ti accompagnano.Hai provato più volte a immergerti nell’abisso per andare a fondo, vederli, toccarli, capirli, ma ogni volta il “guardiano” ti impediva di andare oltre.

E hai rabbia…, una rabbia così forte che ne hai anche paura…, sai perfettamente che se la concentrassi in un pugno e la facessi esplodere, in un solo momento potresti abbattere un ‘ intera montagna.
Rabbia perché non riesci a risolvere definitivamente tutto questo, perché chi ti doveva stare vicino e insegnarti meglio a percorrere la tua vita, prima non ha avuto tempo e poi, quando finalmente era il tuo momento, ha deciso di abbandonarsi definitivamente al suo dolore.

 

 

Rabbia perché hai fretta, perché senti che stai perdendo tempo e vorresti vivere più a pieno la tua vita.
E rabbia perché c’è anche lui con cui devi fare costantemente i conti. Quel folletto luminoso che è la tua vera natura. Quello che in fondo sa perfettamente cos’è il bello della vita, quello che in fondo ha le idee più chiare di quanto non pensi, quello che sa e gli piace stare in mezzo alla gente, quello che sa prendere la vita con filosofia.

 

 

E’ lui che ti ha rischiarato il cammino nei momenti più bui della tua vita, è lui che ti ha dato e continua a darti sempre speranza, è lui che vuole sentire fino in fondo quell’abbraccio, è lui che vede quella casa in mezzo alle colline, un focolare acceso, lei che ti aspetta sull’uscio ed una bimba che gioca felice in giardino con i suoi cani.

 

 

E il guardiano lo lascia libero di sognare, a volte di muoversi più facilmente, ma non gli ha mai concesso la più totale e incondizionata libertà di azione.

 

 

E’ una guerra snervante che stanca, è una bilancia che continua a dondolare da un piatto all’altro senza mai trovare il giusto equilibrio. Ed è forse proprio questo il punto… fino a quando il guardiano ed il folletto vorranno avere uno il sopravvento sull’altro, fino a quando non decideranno di abbassare le proprie armi, di abbracciarsi e di avanzare nella vita insieme, non ci potrà mai essere una vera pace. Ci sarà al massimo un compromesso che durerà poco.
E il cammino verso questa pace, che talvolta mi è sembrato persino di aver sfiorato, mi appare ancora così lungo e snervante…

 

 

E se il folletto, con complicità folle e creativa, ruba le chiavi al guardiano? Raccontaci la storia del guardiano che ha perduto potere…

Correrebbe a più non posso per i prati, giocherebbe, canterebbe, saprebbe ridere a crepapelle, come piangere a dirotto, farebbe amicizie e stringerebbe alleanze, prenderebbe quello che davvero gli serve ed il resto lo lascerebbe lì.

 

 

Sarebbe sicuro dei suoi sentimenti perché li vive, si metterebbe in gioco con un filo di ironia, scoprirebbe il mondo e darebbe spazio alla sua curiosità.
Sarebbe sicuro un po’ ovunque perché in pace con se stesso, apprezzerebbe le sue capacità ed anche i suoi difetti.

 

 

Direbbe quello che gli passa per la testa, avrebbe meno peli sulla lingua. Saprebbe difendersi e difendere come saprebbe arrendersi e abbandonarsi quando necessario. Si donerebbe di più alla vita ed alle persone, ma allo stesso tempo si farebbe spallucce degli altri.

 

 

E allora corri, azzurro! Corri e vivi, ama, rotolati sui prati e fai spallucce a chi non ti conosce ed è incapace di amare e sa solo criticare. Corri, azzurro!Faccio il tifo per te.Dimmi dove stai arrivando.

Tornando indietro nella notte dei tempi, dove memoria d’uomo non può arrivare , il folletto correva già libero e felice tra i prati …fino a quando un giorno qualcosa cambiò.

 

 

Il folletto iniziò ad aver paura di quello che gli stava intorno, di chi lo circondava e forse anche della stessa natura. E così per sentirsi più sicuro e difendersi da se stesso e dagli altri ingaggiò il guardiano.

Sì, quello stesso guardiano che col tempo da soldato del folletto divenne il suo stesso carceriere e tiranno.
E nelle notti di luna quando tutto tace si sentono le urla disperate del folletto.

 

 

E’ lui che urla tutto il suo dolore di anni di prigionia e di controllo… E’ lui, che pur volendo la libertà con tutto il cuore, ne ha ancora un’immensa paura… E’ lui che non sa neppure perché iniziò un tempo ad avere paura di ciò che più desidera.

Il suo animo è lacerato, e forse i suoi tentativi di liberarsi sono stati fino ad ora goffi e poco convincenti.
Ora è stanco e confuso perché non sa più come smettere di avere paura della paura. E il guardiano continua inesorabilmente ad esercitare il suo potere……

specchio

Il racconto di un paziente

 

 

Scusi posso chiederle una cosa?
Si, mi dica..
Posso abbracciarla?
E ci siamo abbracciati
E lo specchio, uno specchio purissimo, si è infranto

Mia madre mi ha chiesto: ma questa psicologa.. non l’ho mai conosciuta! Perché non me l’hai fatta conoscere!?
Bè, se vogliamo, neanch’io l’ho conosciuta
Lei teneva lo specchio in mano, di fronte a me
E dietro lo specchio non si vede niente
E da quando si è rotto lo specchio, lei non c’è più.
E sono rimasto solo io.
Stavolta con me stesso, però.

Sì, perché quando ci sono andato, dico da lei, dalla psicologa, da questa psicologa, io non ero me stesso, non sapevo più chi ero, ero a pezzi (in senso letterale), facevo cose strane, non mi riconoscevo più.
E chiedevo agli altri di accorgersi di me, della mia disperazione.. e, disperato, mi esibivo. Sì, ero un esibizionista. Di quelli che vanno in giro e si spogliano. Avevo un insana voglia di liberarmi di qualcosa, di un dolore che abitava la mia carne e che non riuscivo più a levarmi di dosso.. e allora irrefrenabilmente danzavo sopra la macchina, nel mezzo di un acquazzone, nudo, nel pieno della notte..

A mia mamma questo l’ho raccontato. Ma secondo me non l’ha capito. Non ci crederà. Avrà pensato che stavo parlando di qualcun altro.
Quello in effetti non sono io. O meglio sono io che mi sono perso. Sono l’altro io, quell’altro io che non parlava con me stesso.
Col corpo non mi sentivo libero.

La mia omosessualità era ancora incarcerata nel sentimento della vergogna. “Col corpo capisco” dice il titolo di un libro. Io non potevo capire. Con la mente non mi sentivo libero.
Non potevo vivere l’amore meraviglioso di cui tutti parlavano. Al massimo di segreto. Sì, quel segreto che ti incarcera di vergogna. Come quello che hai quando sei un esibizionista

Mio padre = vergogna di me.

Quante volte avevo mentito a mia madre per non dirle che andavo dove mi vergognavo di andare.. nei locali gay.. non volevo mentirle.. ma sono stato costretto..
e il dolore si fa..
e allora piango..
e io mi accorgo che, raccontandomi allo specchio, posso ricominciare ad essere me stesso, perché è come se le due parti di me, per un momento, si parlassero, come se mi “riflettessi” allo specchio
e il dolore si sfa..

e lo specchio, sì, dico lei, la psicologa, mi dice: “Forse lei ha pianto troppo poco..”
e da allora mi sento libero di raccontarmi e, come un fiume in piena, affronto cose che non ho mai affrontato (e piango.. piango..)
E io, il vero io intendo, quello che avevo nascosto, si muove
Conosce una nuova libertà
E comincia a sognare

 

 

”la natura ci offre la condizione di sogno, il che consente al nostro corpo e alla nostra mente quella libertà di cui esse hanno assoluto bisogno” (Magritte)
E navigo finalmente in quel mare che è l’inconscio.. anche se mi fa paura.. anche se mi fa dolore
E mi capitava di stare male
E mi dicevo: ecco l’ora di volersi bene!

Un giorno ho chiesto al mio specchio: ma lei, che ha tanti libri, che ha letto tanto.. cosa mi consiglia di leggere..?
“Potrei consigliarle libri del settore, specialistici, ma se le devo dire quelli che mi hanno insegnato di più sono i romanzi..”
..i romanzi.. proprio quelli che non riuscivo a leggere.. preferivo i saggi.. con i saggi ti sforzi tanto a pensare.. a capire.. ma non basta

I romanzi contengono invece il vero io, possono sognare, possono spaziare come vogliono e l’uomo, dentro il romanzo, ci sta per intero..
Il romanzo è diventato il mio secondo specchio..
Ti fa capire che non c’è dolore che non sia stato già cantato..

Ti fa capire che la nostra immaginazione è spesso lontana dalla realtà..(e dire che il romanzo è finzione!)
E allora mi spoglio, mi spoglio davvero, del dolore, delle coltri di odio che mi ero costruito contro di me..
E di incanto, senza neanche volerlo, mi accorgo che non mi spoglio più

Che stavolta lo specchio è nelle mie mani
Che lo specchio è diventata la realtà stessa
Che la realtà è dunque nelle mie mani
E che finalmente ho imparato a vivere
Viaggio con il mio specchio
Mi rifletto nel mondo
Dovunque io sia
Viaggio con me stesso..

 

Businessman at Card TableQuasi tutto ciò che facciamo o potremmo fare nella vita quotidiana può renderci schiavi: gioco, sesso, televisione, acquisti, lavoro, internet, chat, esercizio fisico e video-giochi possono diventare nostri padroni, dominando la nostra volontà e occupando gran parte del nostro tempo, fino a sottrarci anche le ore del sonno.
Mai, come in questi ultimi anni, il rischio di diventare dipendenti da un qualcosa è stato così elevato, sia che si tratti di droghe, sostanze esogene o da comportamenti e azioni.

Si dovrebbe allora, smettere di giocare, fare sesso, guardare la televisione, o addirittura di lavorare per evitare di precipitare nella spirale della dipendenza e perdere così, la nostra libertà e la nostra dignità?
Evidentemente no!.


Tuttavia la tendenza alla dipendenza è sempre più frequente nell’uomo contemporaneo.
Sulla scia dell’interesse scientifico per le dipendenze “classiche” (alcol, eroina, cocaina, tabacco) si è sviluppato negli ultimi anni un crescente interesse per “alcuni comportamenti, che fungono da diversivi alla monotonia della vita, alla noia, alla solitudine, agli stress o talvolta all’infelicità, e che possono trasformarsi in vere e proprie droghe e in terribili trappole per l’individuo”.


Il disturbo del gioco d’azzardo e i problemi ad esso correlati sono stati a lungo ignorati dal punto di vista scientifico-clinico, relegando questo disturbo di condotta all’esclusivo ambito del vizio.

Ancor meno è stata posta l’attenzione sui costi che questa malattia comporta, essendo uno dei pochi disturbi in cui le conseguenze della patologia dell’individuo coinvolgono direttamente i familiari, non solo riguardo gli aspetti psicopatologici, ma con pesanti ripercussioni sulla vita privata.

Si stima che 1,5-3% della popolazione generale sia colpito da questo disturbo, il cui esordio è spesso frequente già all’età adolescenziale e tende ad essere più raro dopo i 40 anni. Il sesso maschile è più colpito.



ASPETTI GENERALI DELLE DIPENDENZE COMPORTAMENTALI


Esistono molte opinioni discordanti sul concetto di “dipendenze comportamentali”. In generale, per parlare di dipendenza è necessario che vi siano insieme impulso, consumazione avida e passionale, ripetizione e dipendenza. Tali dimensioni cliniche non si ritrovano sistematicamente nei soggetti con dipendenze comportamentali. Bisogna riflettere in primo luogo sull’esistenza delle dipendenze di tipo fisico e quelle di tipo psicologico.


Mentre per la dipendenza fisica possiamo fare riferimento alla necessità di assumere una determinata sostanza per evitare la sofferenza psicologica ed i segni causati dalla sua mancanza (tremori, nausea, diarrea, crampi, convulsioni, etc…), il concetto di dipendenza psicologica è più sfuggente, in quanto fa riferimento a meccanismi difficilmente evidenziabili, per cui il desiderio irrefrenabile di assumere nuovamente una sostanza (ma, come vedremo, anche di trovarsi in una determinata situazione, di “consumare” qualcosa che non sia una sostanza, di non poter fare a meno di qualcosa o qualcuno) non è apparentemente in relazione con le caratteristiche della sostanza stessa ne con le conseguenze biochimiche dell’assunzione.

Il soggetto affetto da una dipendenza comportamentale compie in modo ripetitivo e “obbligato” una precisa sequenza di comportamenti (acquisti, furti, incendi, etc..), cui seguono reazioni di piacere, di disinibizione e/o di euforia.


Nelle dipendenze comportamentali sono presenti numerosi sintomi tipici delle dipendenze da sostanze (chimiche), in particolare un comportamento selettivamente investito con conseguenze negative individuali, familiari, sociali e professionali e una sensazione di ansia o di malessere nel caso in cui tale comportamento venga interrotto.

Oggi tra le dipendenze comportamentali vengono incluse anche le cosiddette “nuove dipendenze”, quali l’acquistare compulsivo, la dipendenza sessuale, la dipendenza dal lavoro, i disturbi bulimici, i comportamenti rischiosi, la dipendenza da Internet o da video-giochi o da gioco d’azzardo.

Psicologa Psicoterapeuta Milano

Dott.ssa Daniela Grazioli

Il mio studio si trova a Milano in Via Ximenes, 1
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