In tempi di pandemia mancano molte cose tra cui gli affetti, il lavoro, ma soprattutto: la libertà. Ma cos’è la libertà?

Lo approfondiamo in questo articolo.

Tra quotidianità e disorientamento

Le istituzioni sono state ideate dall’uomo per autocodificare se stesso e la propria natura; oggi queste istituzioni ci danno regole ferree che limitano, a causa della pandemia in corso, la nostra vita, la nostra libertà. Le restrizioni non terminano e le persone, bombardate da notizie ansiogene, tengono alta l’allerta con ripercussioni fisiche, psicologiche ed emotive.

Sul piano psicologico i disagi sono gli stessi da un anno, con l’aggravarsi di un senso di indeterminatezza sulla conclusione di questo momento. L’aumento di casi di suicidio, omicidio e violenza, sono sempre più fuori controllo.

Nella quotidianità sono aumentati i casi di:

Si parla spesso dello stato psicologico dei ragazzi ma, gli adulti e soprattutto gli anziani, non sono esenti da casi patologici a livello psicologico.

Paura del presente e del futuro

Il procrastinarsi della situazione d’emergenza crea una paura sociale capillare, molti stili di vita sono cambiati ma purtroppo ancora non sappiamo quale sarà il nostro futuro riguardo questa situazione. La fobia sociale è diventata routine e si è impossessata di moltissime persone. Questa fobia ci riporta qualcosa di molto diverso dal vivere naturale dell’essere umano. Soprattutto dobbiamo tener presente che in un prossimo futuro, se non già da ora, i crolli psicologici dati dal vissuto di morti, abbandoni e distacchi, saranno complessi da smaltire e rielaborare.

“La gente ha paura della libertà” Carlo Levi

Si dice che solo il popolo della Grecia antica abbia davvero inteso, nelle sue radici più profonde, il senso di cosa sia un uomo. Oggigiorno si sente spesso ripetere, con non poco abuso, il termine libertà. Tutti vogliono essere liberi:

fino a qui tutto bene. Ma a volte, per una tanto agognata idea di libertà, l’essere umano commette errori, brancola, erra. Forse non gli è davvero chiaro quale sia il concetto reale di libertà. L’uomo ha per sua natura infatti a che fare continuamente con un altro concetto: quello di identità. L’identità è un tassello imprescindibile della sua natura sociale, consente alla società di agire un’individuazione delle persone, non a caso all’interno della burocrazia tutto gira intorno al concetto di identità. Ma identità significa anche, etimologicamente parlando, uguaglianza. Quindi la domanda che ci si pone è la seguente:

Siamo tutti uguali e con lo stesso desiderio di libertà?

La risposta è no. Se il concetto di identità è caro a molti, rassicurante e protettivo, molte persone invece non accettano, nel loro profondo, questa via. Preferiscono essere liberi. Ma libertà non chiama identità, poiché, per esattezza, l’una esclude l’altra. Un individuo libero è scevro da qualsivoglia identità, lo avevano capito i greci ed è lo status quo di parecchi filosofi e artisti del presente e del passato. Il concetto di libertà però implica un altro concetto fondamentale: quello di responsabilità. E qui arriviamo al punto.

L’essere umano vuole davvero essere responsabile di e per se stesso?

Raramente. L’uomo attuale, in via generale, preferisce demandare la responsabilità su di sé ad altri. Per esempio allo Stato che, indicativamente e antropologicamente, codifica i comportamenti degli esseri umani attraverso:

Politica ed istituzioni creano così una sorta di griglia che coinvolge i popoli, identificandoli e privandoli del più intrinseco senso di libertà. Un uomo libero dalla responsabilità su se stesso non è un uomo libero..

 

Il senso della vita

Il senso della vita

Di Claudio Magris

Una volta, diceva Karl Valentin, il cabarettista così ammirato da Brecht, il futuro era migliore. Non il passato, così orribile e pieno di ingiustizie, ma il futuro, l’idea e la speranza del futuro, di un futuro diverso e migliore da costruire. Non il piccolo futuro immediato, quello che non c’è mai perché è sempre in arrivo e mai reale e la sua attesa, la smania che esso arrivi il più presto possibile, brucia il presente, l’unica vita che si ha e che viene consumata e distrutta dalla febbre che arrivi qualcosa d’altro, che in questa corsa non c’è veramente mai. Si hanno sempre tante ragioni per sperare che il tempo reale in cui si vive passi velocemente; si aspetta con ansia che arrivi presto il domani, la settimana prossima, quando si conoscerà il risultato delle elezioni, il responso di un’analisi clinica, l’inizio delle vacanze, il matrimonio o il divorzio. E così si vive non per vivere ma per aver già vissuto, per essere un po’ più vicini alla morte; si vive per la morte.
Nessuno come Michelstaedter ha colto questa corsa verso il nulla che distrugge la vita.

Lo aveva già detto Gesù, quando invita a non pensare al domani e a concentrarsi sull’oggi.

Nella lingua dei Chamacoco, una popolazione india del Paraguay, la negazione si esprime col futuro; per dire «non ti amo» si dice «ti amerò». Dunque ora, adesso, non ti amo. Così il debitore insolvente dice «pagherò», dunque non ti pago adesso, ti pagherò domani, sempre domani, dunque mai. In un’altra lingua dell’Amazzonia ricordata da Canetti in Massa e potere, l’andare verso il futuro è espresso con lo stesso verbo che indica il procedere all’indietro; si va al buio verso l’ignoto, mentre l’orizzonte è il paesaggio da cui ci si allontana e che dunque si perde, si allarga, diventa più vasto e lontano.

Se si sta con la faccia attaccata al muro si vede solo quel pezzo di muro e a mano a mano che si va indietro si vede una realtà sempre più larga e sempre più in fuga. Così il neonato attaccato al seno vede solo quel seno e a mano a mano che cresce vede tante più cose e perde quel seno. Non è questo piccolo incalzante futuro che ci manca; esso è anzi il ritmo sempre più frenetico della nostra esistenza, oggi sempre più distrutta in una corsa non a fare ma ad aver già fatto, rispondere alle mail pochi secondi dopo averle ricevute, rispondere agli sms e cancellarli immediatamente.

Nei Cento giorni, il romanzo del grande Joseph Roth, Napoleone è un amatore che consuma il sesso con una fretta svergognata, il più rapidamente possibile per passare subito ad altro. La vita come eiaculazione precoce. Alle donne dell’imperatore che non fanno a tempo a godere prima che tutto sia finito resta solo la stordita soddisfazione di essere state a letto, si fa per dire, con un amante incoronato. Magra soddisfazione.

Non è questo il futuro rimpianto da Karl Valentin, artista mordace e malinconico-ironico maestro di quel cabaret che è la vita. È il grande futuro, il futuro dei profeti biblici sempre in cammino verso una Terra Promessa. Nei suoi momenti più alti la Storia umana è stata animata dal senso di questo cammino, dall’esigenza di una vita migliore, più giusta, più libera dalla violenza, dalla tirannide, dalle sordide disuguaglianze, dalla fame, dalla miseria, dalla sofferenza, dallo sfruttamento.

Questo cammino utopico non distrugge il presente ma dà senso a ogni suo istante, a ogni passo del suo andare, e conferisce l’eternità del valore alla contingenza dell’attimo. Mosè sapeva che non avrebbe mai messo il suo piede nella Terra Promessa, ma non smise di camminare e di guidare il suo popolo nella sua direzione. Il «principio speranza» di Bloch; il «sogno di una cosa» di cui parlava Marx, sogno che dà senso alla realtà e dunque è la realtà.

Sino a pochi decenni fa la Storia e la politica erano animate, pervase da questa tensione. Si parlava di libertà, della necessità di difenderla e di allargarla, di ingiustizie da sanare, di oppressi da liberare. Certamente queste tensioni ideali erano usate e manovrate da Stati e da movimenti politici che se ne servivano come di strumenti della loro volontà di potenza, così come i movimenti che volevano creare un definitivo paradiso di libertà e giustizia hanno spesso sparso sangue innocente e creato inferni. «Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome», ha detto Madame Roland, eroina della Rivoluzione Francese, salendo sul palco della ghigliottina inventato proprio dalla Rivoluzione francese.

Ma i pervertimenti delle grandi idee di libertà e giustizia non avevano spento i fermenti di quelle idee, il senso di dover rendere più umano e più abitabile il mondo, la fede nel cambiamento e nella sua necessità. L’utopia totalitaria che crede di possedere l’unica ricetta per creare un paradiso e di poterla imporre agli altri o addirittura di aver già creato il paradiso è un incubo destinato al sanguinoso fallimento.

Ma l’utopia quale progetto di un mondo migliore per tutti e quale compito di correggere i proprio errori è il sale della terra. E questo sale che manca al nostro mondo scipito, che sembra aver distrutto il futuro nonostante gli incredibili progressi della sua tecnologia, i sogni di immortalità o ibernazione, di doni e robot molto più longevi dell’individuo. Pure all’Europa — o meglio all’Unione Europea, che dovrebbe dare unità politica alla sua cultura e alla sua civiltà — sembra mancare questo sale, elemento unificante.

L’Unione Europea sembra inceppata dall’ansia di quel piccolo futuro immediato, ansiogeno e paralizzante

Sembra presa soltanto dal rattoppo delle proprie falle, rattoppo sempre provvisorio e presto sfilacciato. Sembra tutta protesa a rammendare buchi e strappi, a rabberciare fratture tra l’uno e l’altro dei Paesi che la compongono, a rinviare le soluzioni — difficili ma necessarie — dei problemi, a eludere anziché ad affrontare le difficoltà e le contraddizioni. Ad esempio, a fingere di non vedere le inaccettabili contraddizioni tra i principi e i valori sui quali essa si fonda e le Costituzioni di alcuni Paesi che fanno parte di essa e negano quei valori.

Questa tattica di piccola sopravvivenza fa morire una compagine politica. La Storia è finita, dice una famosa e vuota, farsesca frase. Finita ovvero uccisa. Il sistema economico oggi vincente si proclama non solo vincente oggi, il che oggi è vero, ma il migliore di tutti i sistemi possibili, l’unico possibile, lo stadio finale dell’evoluzione umana e storica, la fine della Storia e dunque della speranza, la più grande delle virtù — diceva il geniale scrittore cattolico Péguy — perché è così difficile vedere come vanno le cose e tuttavia credere che potranno e dovranno essere diverse. Lo aveva preceduto Kant, quando si chiedeva «Cosa posso sperare?».

È la speranza «nonostante» di cui parla il Cristianesimo, carne presente del futuro; il Messia ebraico che deve ancora arrivare e l’attesa del quale è già il futuro. Sperare nonostante — nonostante i milioni e milioni di umiliati e offesi che vivono sofferenze innominabili e muoiono al buio, nel buio di devastazione e ingiustizia. Il futuro che non c’è esiste nella speranza. Lo abbiamo appreso già a scuola, quando abbiamo imparato che spero, prometto e giuro vogliono l’infinito futuro.

in “la Lettura” del 3 febbraio 2019

Un “accomodatore del destino”, così Simenon chiama il commissario Maigret, il suo personaggio più famoso. Piccoli, quasi impercettibili aggiustamenti che Maigret introduce nella vita degli altri personaggi, “accomodano” o fanno esplodere, in sostanza cambiano il loro destino.

Spesso nei romanzi, nei film, nelle notizie dei giornali incontriamo e ci confrontiamo con il destino: un ritardo, un autobus perso e cambia la vita dei protagonisti.
Tra il personaggio e l’evento non esiste alcun legame, solo l’accadere dell’uno e dell’altro nello stesso tempo e nello stesso luogo li unisce in un indissolubile nodo che diventa, questa volta sì, la causa degli eventi successivi, in altre parole è la “sincronicità” junghiana il nesso che li accomuna e precipita nel medesimo destino.

Piccoli insignificanti “aggiustamenti”, provenienti da chissà dove e cambia la vita, la nostra vita, che spesso non riusciamo a cambiare malgrado impegnative e faticose opere di trasformazione che alla fine si rivelano temporanei restauri di facciata che neppure sfiorano il contenuto.

L’incontro col destino è spesso la misura della nostra precarietà, ogni cosa, senza eccezione, nella vita dell’uomo, compresa la vita stessa, è appesa a un filo.

E’ scritto come si srotola il filo o è solo frutto del caso, in altre parole il destino è un inconoscibile, ma ordinato fato o una disordinata accozzaglia di fatali imprevisti?

Il quesito è del tipo “E’ nato prima l’uovo o la gallina?”

e inevitabilmente le risposte sia a sostegno della prima tesi, sia a sostegno della seconda lasciano sempre un che di sospeso e insoddisfacente.

Il nodo da sciogliere sta nel fatto che se il destino è scritto, l’uomo non ha alcun potere sulla sua vita e diventa una “povera cosa”, se invece il destino ha le vesti del caso, la vita non ha alcun senso, non tende a niente e l’uomo è una volta ancora una “povera cosa”.

Sapere che c’è un senso, uno scopo, che va oltre la momentanea presenza di ciascuno nel mondo, e contemporaneamente essere liberi di scegliere nella propria vita, sono due insopprimibili esigenze umane.

Scegliere una delle due alternative, di conseguenza comporta in ogni caso una perdita di qualcosa di fondamentale.

La filosofia, le religioni, le scienze fisiche e biologiche hanno dato e continuano a dare le loro risposte più o meno articolate e convincenti.
Ma se a livello teorico ogni nodo si può sciogliere, a livello empirico, di esperienza di vita quotidiana i nodi sono rimasti intatti e spesso ci sentiamo preda di un insensato destino o, a scelta, impotenti personaggi di un imperscrutabile disegno, di cui conosciamo solo il lontano scopo finale.

Una cosa tuttavia accomuna le diverse risposte, che sia in mano a Dio, al Caso, alla Natura o alle Stelle, il destino è sempre “fuori” dall’uomo, non appartiene al suo proprietario, ma a qualcun altro che lo amministra e distribuisce secondo le “sue” leggi.

Nel mito di Er, che si trova nell’ultimo libro della Repubblica, Platone racconta che le anime prima di nascere si trovano in una specie di aldilà, hanno però tutte un destino da compiere che in certo senso corrisponde al “carattere” di quell’anima in particolare, devono perciò scegliersi la “vita”, l’”uomo” adatto a compiere la porzione di destino loro assegnata.

Prima di scendere sulla terra viene dato loro un compagno, un “genio” o “daimon”, perché vigili affinché l’anima nel corso della vita adempia al proprio destino.

Nel venire al mondo però, l’anima dimentica tutto questo e crede di nascere nuda, vuota e sola, tuttavia il suo daimon ricorda chiaramente il contenuto del suo “carattere”, della sua immagine innata, e diventa così il portatore e depositario del suo destino.

Nel mito platonico, questo destino, il cui ricordo il daimon conserva, questa immagine o forma del progetto da compiere, rappresenta il proprio posto nel mondo, il proprio contributo alla vita dell’universo, la parte assegnata a ciascuno nell’ordine del mondo.

Oggi, J. Hillman, pensatore e analista junghiano, ci propone la “teoria della ghianda”, la ghianda, al cui interno è racchiusa la vocazione, la motivazione a diventare quell’unica e splendida quercia che cercherà di essere.

La teoria della ghianda di Hillman si riferisce alla percezione, alla sensazione, spesso elusa, omessa o inascoltata, che c’è una ragione per cui sono “qui”. La sensazione che c’è un motivo per cui sono al mondo, nella mia forma unica ed irripetibile, la sensazione di essere responsabile verso un “quid” dai contorni confusi, ma che necessariamente mi chiama, mi spinge verso certe direzioni e non altre.

La teoria della ghianda sostiene che ogni persona ha in sé un’unicità, un “carattere” che chiede di essere vissuto, una vocazione ad essere quell’unico, irripetibile individuo, ad essere la quercia alta e frondosa, o bassa e massiccia che la ghianda e il proprio daimon hanno scelto, un “tempo” fuori dal tempo.

In questo modo J. Hillman ci conduce per mano a riscoprire e recuperare “verità” non dimostrabili, ma indubbiamente sentite e sperimentate da ogni uomo.
In termini filosofici è insita in questa posizione teorica il rifiuto a pensare la vita dell’uomo come una storia scritta da geni ereditati e influenze ambientali, che fin dall’inizio decidono per lui il copione che senza alcuna possibilità di sbavature, sarà costretto a recitare.

L’ipotesi di Hillman ci riscatta da un destino di causa-effetto che ci vede pedine impotenti nella partita giocata da geni e ambiente, vittime o eroi-solo-contro. E’ la “libertà” che ci è concessa in questo gioco dove non c’è posto per l’unicità del “noi”, per la sensazione del non essere qui per caso, per la sensazione che ci sono cose che ci fanno sentire vivi e pieni di significato ed altre vuoti e privi di senso.

Diventare ciò che intimamente sentiamo di essere superando e liberandoci dai condizionamenti e dalle illusioni di cui ci siamo nutriti per crescere, è forse il nostro “destino”, la nostra vera fatica e spesso grande dolore.

Il viaggio verso il “dentro” di noi, verso le autentiche e cristalline originarie potenzialità del nostro essere, verso le promesse di essere, fare, diventare, che ci portiamo dietro e che per strada spesso ci capita di smarrire e deformare è il nostro “destino”, è il sentiero dei bianchi e luminescenti sassolini di Pollicino che ogni volta ci riporta a casa.

Nella letteratura psicoanalitica la figura inquietante dell’anoressia è stata più volte accostata a quella di Antigone. Come la protagonista della tragedia di Sofocle che difende con intransigenza il suo desiderio di dare sepoltura al corpo del fratello pagandone il prezzo con la propria vita, alcuni autori hanno voluto vedere nella scelta anoressica quella stessa intransigenza, il desiderio “puro”, contrario a ogni forma di mediazione, di Antigone. Anche nell’anoressia, infatti, il soggetto non è disposto a cedere, a rinunciare al suo desiderio. Il suo sciopero della fame rende impossibile ogni trattativa. Il suo “no!” non è dialettico, non contempla il dubbio. L’anoressica nel suo rifiuto di alimentarsi manifesta una decisione che sembra priva di incertezze: «D’ora in avanti mi fiderò solo delle mie ossa; d’ora in avanti deciderò io cosa potrà entrare o uscire dal mio corpo!».

Come in nessuna altra malattia mentale, nell’anoressia il tabù della morte è valicato: per difendere il proprio diritto a esistere il soggetto sfida le leggi della natura, contesta l’istinto, si riduce a pelle ed ossa, non si lascia vincere dalla fame, mette a repentaglio la sua vita. L’esperienza clinica rivela ordinariamente la difficoltà a far retrocedere l’anoressica dalla sua decisione ostinata di rifiutarsi al nutrimento anche se questo rifiuto mette in pericolo la sua vita. Non ritroviamo qui la stessa inflessibilità di Antigone? Anche l’anoressica, come l’eroina di Sofocle, mostra che la vita umana eccede sempre quella animale. Se la vita animale persegue il soddisfacimento immediato dei propri bisogni primari (mangiare, respirare, dormire), quella umana non può accontentarsi. Non solo di pane, come ricorda la Bibbia, vive l’essere umano. Esiste un altro nutrimento ed è il nutrimento del desiderio.

È a questo che aspira l’anoressica di fronte a un Altro che sembra interessarsi solo dei suoi bisogni. È la lezione drammatica che possiamo ricavare dal celebre e sadico sperimento “psicologico” organizzato dall’imperatore “illuminato” Federico II. Con l’intenzione di scoprire quale lingua fosse all’origine di tutte le lingue, l’imperatore “intellettuale”, appassionato della caccia col falco, affida dei neonati alle cure di balie anonime chiedendo loro di non rivolgere mai alcuna parola ai piccoli. In questo modo si sarebbe individuata la lingua più originaria, che sarebbe dovuta sorgere spontaneamente nei bambini senza subire nessun condizionamento. Risultato: tutti morti. Senza il segno del desiderio dell’Altro, senza cure capaci di riconoscere il soggetto nella sua particolarità insostituibile, senza quella “grazia dell’attenzione” che, secondo Simone Weil, definisce il gesto più autentico dell’amore, la vita umana si spegne, s’ammala e muore.

È questa la posta in gioco ultima dell’anoressia: il rifiuto ostinato di nutrirsi vuole segnalare l’eterogeneità irriducibile tra il piano dei bisogni e quello del desiderio. Di fronte a genitori, madri o padri, indifferenti alla particolarità della sua esistenza, ella rivendica il diritto di essere considerata come un soggetto del desiderio attraverso il rifiuto di soddisfare i suoi bisogni. Una mia paziente rimproverava i suoi genitori di considerarla solo come un “tubo digerente” da riempire. È la verità che l’anoressia custodisce: la vita umana non si alimenta di oggetti, ma di segni. Il suo rifiuto caparbio dell’oggetto è infatti un modo, per quanto distorto, di invocare la presenza del segno d’amore, il segno del riconoscimento del suo desiderio. Per questa ragione Winnicott ricordava che quando i bambini manifestano dei disturbi dell’appetito hanno sempre dei dubbi sull’amore dei loro genitori.

Eppure la scelta di Antigone non può che apparire diametralmente opposta a quella anoressica. Antigone, infatti, non mette al centro della sua scelta, come fa invece l’anoressica, il proprio Io: ella scende viva nella tomba nel nome dell’amore per il fratello rinunciando all’attaccamento al proprio io. In Antigone l’Io appare decentrato, scivola di lato, non è un idolo feticistico al quale consegnarsi come invece accade nell’anoressia contemporanea, la quale, al contrario di Antigone, vive esclusivamente per il proprio Io. La sua volontà inflessibile non agisce per difendere il valore sacro dell’amore fraterno, ma per sostenere il culto narcisistico del proprio corpo magro.
L’oltrepassamento del tabù della morte porta così in due direzioni opposte: Antigone sacrifica la propria esistenza alla Legge non scritta dell’amore per il fratello, mentre l’anoressica sfida il tabù della morte per ricattare l’Altro da cui dipende, per gettare i suoi genitori nell’angoscia, per affermare un’impossibile autonomia. Il suo è un platonismo disperato che in realtà tende a ribaltarsi in un materialismo cieco.

 

Non c’è nessuno spiritualismo nell’anoressia contemporanea ma solo infatuazione narcisistica per il proprio Io. La sua concezione della libertà resta adolescenziale perché rifiuta ogni limite, ma in questo modo, essa si rovescia nel suo contrario: per liberarsi dalla prigione del corpo essa diviene schiava del proprio corpo. L’ideale di una indipendenza assoluta — al quale vanamente si dedicano i suoi sforzi — si ribalta, come spesso accade nell’adolescenza patologica, in una dipendenza rovinosa. Non mangiare non libera dal cibo ma fa del cibo una vera e propria ossessione che occupa i pensieri dell’anoressica giorno e notte. In questo dobbiamo vedere un insegnamento profondo: la vera libertà non consiste mai nel rifiuto del vincolo, ma nella sua accettazione.

Nella letteratura psicoanalitica la figura inquietante dell’anoressia è stata più volte accostata a quella di Antigone. Come la protagonista della tragedia di Sofocle che difende con intransigenza il suo desiderio di dare sepoltura al corpo del fratello pagandone il prezzo con la propria vita, alcuni autori hanno voluto vedere nella scelta anoressica quella stessa intransigenza, il desiderio “puro”, contrario a ogni forma di mediazione, di Antigone. Anche nell’anoressia, infatti, il soggetto non è disposto a cedere, a rinunciare al suo desiderio. Il suo sciopero della fame rende impossibile ogni trattativa. Il suo “no!” non è dialettico, non contempla il dubbio. L’anoressica nel suo rifiuto di alimentarsi manifesta una decisione che sembra priva di incertezze: «D’ora in avanti mi fiderò solo delle mie ossa; d’ora in avanti deciderò io cosa potrà entrare o uscire dal mio corpo!».
Come in nessuna altra malattia mentale, nell’anoressia il tabù della morte è valicato: per difendere il proprio diritto a esistere il soggetto sfida le leggi della natura, contesta l’istinto, si riduce a pelle ed ossa, non si lascia vincere dalla fame, mette a repentaglio la sua vita. L’esperienza clinica rivela ordinariamente la difficoltà a far retrocedere l’anoressica dalla sua decisione ostinata di rifiutarsi al nutrimento anche se questo rifiuto mette in pericolo la sua vita. Non ritroviamo qui la stessa inflessibilità di Antigone? Anche l’anoressica, come l’eroina di Sofocle, mostra che la vita umana eccede sempre quella animale. Se la vita animale persegue il soddisfacimento immediato dei propri bisogni primari (mangiare, respirare, dormire), quella umana non può accontentarsi. Non solo di pane, come ricorda la Bibbia, vive l’essere umano. Esiste un altro nutrimento ed è il nutrimento del desiderio.
È a questo che aspira l’anoressica di fronte a un Altro che sembra interessarsi solo dei suoi bisogni. È la lezione drammatica che possiamo ricavare dal celebre e sadico sperimento “psicologico” organizzato dall’imperatore “illuminato” Federico II. Con l’intenzione di scoprire quale lingua fosse all’origine di tutte le lingue, l’imperatore “intellettuale”, appassionato della caccia col falco, affida dei neonati alle cure di balie anonime chiedendo loro di non rivolgere mai alcuna parola ai piccoli. In questo modo si sarebbe individuata la lingua più originaria, che sarebbe dovuta sorgere spontaneamente nei bambini senza subire nessun condizionamento. Risultato: tutti morti. Senza il segno del desiderio dell’Altro, senza cure capaci di riconoscere il soggetto nella sua particolarità insostituibile, senza quella “grazia dell’attenzione” che, secondo Simone Weil, definisce il gesto più autentico dell’amore, la vita umana si spegne, s’ammala e muore.
È questa la posta in gioco ultima dell’anoressia: il rifiuto ostinato di nutrirsi vuole segnalare l’eterogeneità irriducibile tra il piano dei bisogni e quello del desiderio. Di fronte a genitori, madri o padri, indifferenti alla particolarità della sua esistenza, ella rivendica il diritto di essere considerata come un soggetto del desiderio attraverso il rifiuto di soddisfare i suoi bisogni. Una mia paziente rimproverava i suoi genitori di considerarla solo come un “tubo digerente” da riempire. È la verità che l’anoressia custodisce: la vita umana non si alimenta di oggetti, ma di segni. Il suo rifiuto caparbio dell’oggetto è infatti un modo, per quanto distorto, di invocare la presenza del segno d’amore, il segno del riconoscimento del suo desiderio. Per questa ragione Winnicott ricordava che quando i bambini manifestano dei disturbi dell’appetito hanno sempre dei dubbi sull’amore dei loro genitori.

Eppure la scelta di Antigone non può che apparire diametralmente opposta a quella anoressica. Antigone, infatti, non mette al centro della sua scelta, come fa invece l’anoressica, il proprio Io: ella scende viva nella tomba nel nome dell’amore per il fratello rinunciando all’attaccamento al proprio io. In Antigone l’Io appare decentrato, scivola di lato, non è un idolo feticistico al quale consegnarsi come invece accade nell’anoressia contemporanea, la quale, al contrario di Antigone, vive esclusivamente per il proprio Io. La sua volontà inflessibile non agisce per difendere il valore sacro dell’amore fraterno, ma per sostenere il culto narcisistico del proprio corpo magro.

L’oltrepassamento del tabù della morte porta così in due direzioni opposte: Antigone sacrifica la propria esistenza alla Legge non scritta dell’amore per il fratello, mentre l’anoressica sfida il tabù della morte per ricattare l’Altro da cui dipende, per gettare i suoi genitori nell’angoscia, per affermare un’impossibile autonomia. Il suo è un platonismo disperato che in realtà tende a ribaltarsi in un materialismo cieco. Non c’è nessuno spiritualismo nell’anoressia contemporanea ma solo infatuazione narcisistica per il proprio Io. La sua concezione della libertà resta adolescenziale perché rifiuta ogni limite, ma in questo modo, essa si rovescia nel suo contrario: per liberarsi dalla prigione del corpo essa diviene schiava del proprio corpo. L’ideale di una indipendenza assoluta — al quale vanamente si dedicano i suoi sforzi — si ribalta, come spesso accade nell’adolescenza patologica, in una dipendenza rovinosa. Non mangiare non libera dal cibo ma fa del cibo una vera e propria ossessione che occupa i pensieri dell’anoressica giorno e notte. In questo dobbiamo vedere un insegnamento profondo: la vera libertà non consiste mai nel rifiuto del vincolo, ma nella sua accettazione.

simmonsLettura

“Sono stanco stasera. E ho l’impressione di non ricordare che dire stanchezza è quasi sempre un modo di dire tristezza. Molto spesso attribuiamo sensazioni e sintomi fisici a fattori esterni e, in generale, siamo molto più disposti ad accorgerci degli stati fisici che di quelli psichici. Spesso dico, e sento dire, stanchezza. Traduco: tristezza. E sono convinto che il corpo è triste quando è abusato, costretto, obbligato, schiavo di un progetto mentale.”
E’ facile fuggire la tristezza: ci si deprime o ci si arrabbia. Nel primo caso vivo in uno stato di anestesia, non mi apro, non faccio scambi, non comunico. Nel secondo, piuttosto che riconoscere la mia tristezza, ne attribuisco la responsabilità o la colpa ad altri. Così sono o una vittima o un ribelle. In ogni caso non ho potere, perché che io abbia potere implica che io mi assuma la responsabilità della mia situazione.
Stasera sono riuscito a non chiedermi cosa voglio imparare qui. Mi sono chiesto cosa volete voi: capire, conoscere, pormi domande. Ma non so cosa voglio capire io, quali sono le mie domande. Mi accorgo di essere arrivato qui pronto a dare, vale a dire pronto a vivere voi come bisogno e me stesso come l’incaricato di soddisfare il bisogno, piuttosto che a prendere il contatto con il mio bisogno. Eppure questo paio d’ore appartengono alla mia vita, al tempo che io ho a disposizione su questo pianeta, tempo che va inesorabilmente accorciandosi. In realtà anche la psicoterapia comincia con il mio bisogno, con il mio tempo, nonostante io possa non ammetterlo. Qualunque altra posizione serve solo a far confusione, a negare la realtà, quando non è pura malafede.
Il mio connazionale Ralph Waldo Emerson, che aveva capito quasi tutto già centocinquant’anni fa, ha detto: «Quello che fai tutto il giorno è quello che sei». Molto bello pensare che quello che faccio è qualcosa di contingente, puramente casuale, mentre io in realtà sono altro, sono altrove. Ma non è vero.
Partiamo allora dalla situazione dello psicoterapeuta. Vedo che la maggior parte degli psicoterapeuti stralavora. Ho l’impressione che fuggire dalla vita e rifugiarsi nella seduta sia una tendenza universale. Inevitabilmente aiutare il Bambino ferito, simbolicamente rappresentato ?là?, è molto più facile che aiutare il Bambino realmente presente ?qua? (anche se non è detto che le due possibilità debbano per forza escludersi reciprocamente). Naturalmente esistono anche altri fattori che ci spingono a fare questo mestiere.

Esistono stimoli enormi: possibilità di apprendimento, possibilità di soddisfare la nostra curiosità nei confronti degli esseri umani e perciò anche nei confronti di noi stessi, possibilità di partecipare a una lotta affascinante e incoraggiante, perché ogni volta che vengono superate la paura, l’inibizione, l’autolesionismo, la cecità, ne ricaviamo l’incoraggiamento che possano essere superate anche in noi. C’è il piacere di fare ciò che si è imparato faticosamente a fare, il piacere che ogni artista prova nell’esercitare la sua arte. C’è uno stimolo intellettuale che spinge anche chi non privilegia le teorizzazioni a formulare ipotesi, a creare nuove prospettive. Sicuramente la situazione terapeutica permette di entrare in contatto con l’altro e con se stessi nella realtà di una relazione.
Lo psicoterapeuta è autorizzato a un contatto autentico. autorizzato ad avere a che fare con passioni, pulsioni, sentimenti, energie, correnti di vita altrimenti emesse al bando, perché sta facendo ufficialmente del bene e perché sta lavorando, si sta guadagnando da vivere.
La situazione offre allo psicoterapeuta un’infinità di esperienze. Comunque egli si senta al mattino, magari sta male o è depresso, arrivato in studio scopre che almeno uno dei primi pazienti sta peggio di lui. E si sente meglio.
La psicoterapia non è tutta la vita, perché è anche un’illusione, una situazione ?come se?.

Tuttavia è abbastanza simile alla vita. Guardiamo, per esempio, la situazione del paziente. Il paziente viene per cambiare, a patto che ciò non implichi alcun dolore, alcuna ansia, alcun prezzo giudicato eccessivo. Il paziente viene anche per rimanere esattamente com’è, possibilmente senza soffrire come già sta facendo. Insomma viene con la massima ambiguità, con la massima ambivalenza, aspettandosi di essere in qualche modo miracolato. Quasi sicuramente il paziente va dal terapeuta sbagliato, quasi sempre è attratto da un approccio che gli offre quello cui è già assuefatto.
Il paziente tutto testa, troppo concettuale, staccato dal corpo, cerca un approccio ragionato, logico, concettuale, distaccato. Il paziente ?fisico?, dal lottatore grecoromano all’anoressica, molto spesso cerca un approccio corporale: bioenergetica, integrazione posturale, o qualcosa di simile. Qualcosa, insomma, che non lo sbatterà davanti a difficoltà relazionali e a problemi endopsichici. Il paziente che si rivolge alla Gestalt, a sua volta, vuole forse fuggire tutti e due gli aspetti, visto che la Gestalt si spaccia (a ragione) per sintesi di entrambe le dimensioni.
Naturalmente, se si tratta di vera psicoterapia, l’ambiguità o l’ambivalenza del paziente, il fatto che sia venuto in cerca di quello di cui in realtà già soffre, non finisce con il vincere.
La vera psicoterapia sa ingannare il paziente, nel senso che sa sembrare rassicurante mentre lo indirizza verso la dimensione che sta fuggendo. Sospetto che l’autenticità, l’efficacia della psicoterapia non sia questione di impostazione. La psicoterapia non è un luogo in cui impostazioni incontrano sintomi, ma in cui persone hanno a che fare l’una con l’altra.
Il terapeuta avvia con il paziente un rapporto particolare e, in un certo senso, molto finto, perché punta a scopi, è un rapporto di lavoro piuttosto che di immediata gratificazione. La maggior parte dei nostri rapporti cerca solo di dare e ottenere gratificazione superficiale: se non altro, posso ottenere la gratificazione di gratificarti.
Nella situazione psicoterapeutica invece è un po’ diverso: non è vietata, né esclusa la gratificazione, ma è anche massicciamente presente la frustrazione. La frustrazione che deriva dalla resistenza, la frustrazione che deriva dal fatto che stiamo lavorando e non giocando. Io sono qui per gratificarti, tu non sei là per gratificarmi. Siamo in un rapporto terapeutico e vogliamo raggiungere gli scopi che ci siamo prefissi. Ottenere un risultato richiede a volte che io ti frustri, implica inevitabilmente che a volte tu mi frustri, che non sei come io mi aspetto che tu sia, che non sono come tu ti aspetti che io sia. E un bel giorno, grazie a questo processo accadrà, si spera, e spesso accade, di ottenere autostima: ? Ecco, io sono una persona che ha raggiunto gli scopi che si è prefissa?.

A questo punto tu sei l’occasione, il pretesto, ma anche l’indispensabile collaboratore su questa mia strada, così come io sono pretesto, occasione e indispensabile collaboratore nel tuo cammino verso lo stesso obiettivo: arrivare dove volevi. Questo arrivo è fonte di autostima e di gratitudine notevoli, ma anche di frustrazione per lo psicoterapeuta: non appena egli si trova davanti non più solo un Bambino ferito, ma una persona capace di assumersi l’essere Adulto, scocca l’ora di salutarlo. Il terapeuta partorisce di continuo figli che se ne vanno.
Sono molte le metafore cui stasera potrei ricorrere. La mia esperienza mi fa insistere su una che certo non è originale: la psicoterapia è una specie di ricapitolazione della nascita. Forme di nascita caratterizzano forse tutta la nostra vita. Ogni volta che mi trovo in un ambiente protettivo, in una situazione di pieno contenimento, sta avvicinandosi il momento di uscirne, di differenziarmi, di rischiare le incertezze dell’ignoto invece di rimanere fermo dentro quest’utero e morirvi. Questo continuo nascere e rinascere, a mio avviso, insito nel nostro percorso, dalla morte dell’embrione alla nascita di quello che verrà chissà cos’è dopo la morte.

Questo percorso altro non è che la crescita, o il lento acquisto, di un’anima. Più specificamente, la situazione terapeutica è la ricapitolazione della differenziazione, della separazione dalla madre, dal contenitore, perché ogni seduta è un’osmosi, uno sprofondarsi in una situazione protetta e finisce, ogni volta, con il doversi alzare e andar via. ? un addestramento all’ansia di separazione, a lungo andare è un addestramento a stare sui propri piedi.

L’intero percorso longitudinale della situazione terapeutica ha questa caratteristica: il paziente guarisce dall’essere un paziente, guarisce dall’essere un essere dipendente, guarisce dall’essere un bambino non responsabile di sé. Chi più chi meno, si assume la responsabilità della propria esistenza. Uscito dall’utero il paziente non ha più tra sé e il mondo un diaframma, ma è finalmente abilitato a entrare, se non sempre almeno spesso, in contatto con la realtà.
Visto che parlo per metafore, vi racconto l’ultima che ho escogitato. Mi è venuto in mente, un po’ di tempo fa, che molti a un certo momento dell’infanzia non ce la fanno più.

Le aspettative nei loro confronti sono talmente esagerate e le loro forze talmente inadeguate, che la realtà diviene inaccettabile. Il bambino, o la bambina, a questo punto è di fronte a un conflitto che molti vedono come conflitto tra vivere e morire. Il bambino da una parte sa che se vuole sopravvivere deve sacrificare se stesso (se ti adegui alla famiglia, alle sue regole, alle sue aspettative, devi lasciare te stesso, la tua natura, i tuoi desideri, i tuoi bisogni); dall’altra sa che sopravvivere come bambino gli è impossibile perché non è autosufficiente né emotivamente né economicamente. Per sopravvivere è costretto dunque a suicidarsi. Cosa questa che lo lascerà in conflitto tra le esigenze del sé e quelle dell’ambiente per il resto della vita.
Ultimamente ho pensato che questo discorso, anche se in gran parte vero, non è del tutto adeguato. Non si tratta solo di conflitto tra voglia di vivere e voglia di lasciar perdere e morire. La cosa è in realtà peggiore: il conflitto è tra voglia di non essere ancora nato e voglia di essere già morto. In altre parole, tra regressione e collasso. Tra due pulsioni di morte. Il problema del bambino è come farla finita con questo mondo d’inferno nel modo più rapido e radicale.
La voglia di essere non ancora nato, che al suo culmine diventa catatonia, è una situazione abbastanza comune: secondo me c’è in giro un sacco di gente non nata.
Cos’è una persona non nata? ? due cose. Innanzitutto è solo il sogno della mamma (forse anche del babbo ma più spesso della mamma in cui è letteralmente contenuta), è i pensieri della mamma sul suo bambino. In secondo luogo è un embrione, un feto; vale a dire un essere vivo, attivo, che si sposta, si agita, dà calci, si gira e che però, al tempo stesso, è inchiodato all’utero, legato al cordone ombelicale, imprigionato in uno spazio limitato. Il feto è nutrito, tenuto al riparo dai colpi del mondo esterno, rassicurato dal perenne battito di un cuore, nel silenzioso e onnipresente abbraccio caldo della placenta.
Essere in questa condizione vuol dire essere spiritualmente il sogno della madre e fisicamente qualcosa che cresce, ma contenuto, ingabbiato. Essere non ancora nato è una situazione molto diffusa e io sto pensando, un po’ per scherzo, un po’ sul serio, di costruire una tipologia delle psicopatologie in base a questo criterio: chi non è nato, chi è già morto.
Anche la possibilità di essere già morto è una grossa tentazione di fronte a una vita invivibile. Ma in cosa consiste l’essere già morto? Stiamo parlando di un essere divenuto, a livello fisico, assolutamente rigido, immobile, uno scheletro; ma stiamo parlando anche di un fantasma, di uno spirito che non conosce limiti, che può attraversare un muro, girare ovunque, che è capace di pensare qualunque cosa e di essere totalmente inafferrabile. Questo spirito, questo fantasma dagli ampi orizzonti e dalle prospettive illimitate, è totalmente astratto e insieme legato a un corpo assolutamente irrigidito e sepolto nel mondo. Secondo me lo si può incontrare a ogni angolo di strada, in qualsiasi ufficio, in qualunque aula o studio.
Queste sono le due grosse tentazioni, le due grosse possibilità a disposizione di chi non vuole essere vivo, di chi ha deciso che la vita non è sopportabile. C’è chi sceglie una soluzione, chi l’altra, chi oscilla tra le due alternative. Il risultato è comunque che si smette di esistere: tutto diventa automatico, meccanico. Non c’è più un soggetto con dolorosi problemi di scelta, con laceranti frustrazioni, orrendi conflitti. C’è uno che non vive ancora o che non vive più.
Il non esserci offre sicuramente dei grandi vantaggi. Per esempio una persona può sembrare presente e gli altri possono credere di vederla, ma lei sa che non c’è. Ciò produce un gran senso di libertà e insieme di superiorità e di disprezzo, che poi portano alla psicosi. ?Io so che non ci sono, voi credete che io ci sia.? Una persona inesistente è assolutamente al riparo dal fallimento e dal successo (ambedue comportano dei problemi); è assolutamente al di là della concorrenza e della competizione; non può essere investita da una macchina, subire un incidente, avere una malattia.
Una persona che non c’è soprattutto non può morire, perché è già morta.
Poi un giorno questa persona, questo morto, va dallo psicoterapeuta perché si rende conto che il prezzo di non esistere è un’infinità di angoscia, di depressione e soprattutto di colpa. Colpa di cui non riesce assolutamente a liberarsi, neppure se diventa missionario, se si dedica ventiquattro ore al giorno a opere di bene, se si astiene da ogni peccato, se obbedisce a ogni possibile regola. Nessun tentativo di scaricare la colpa può riuscire perché non si tratta di una colpa illusoria. La persona sta effettivamente uccidendo qualcuno: è oggettivamente l’assassino di se stesso.

La colpa di tradirsi, distruggersi, ammazzarsi, si presenta confusamente come colpa verso la mamma, il babbo, Dio, i figli, il marito; tutta roba che ha a che fare con assurdi ideali, illusioni di perfezioni irraggiungibili. La colpa, quella vera, è l’orrenda colpa verso di sé, l’essere che quotidianamente viene umiliato, torturato, ucciso. A ogni modo, a un certo punto, il prezzo diventa troppo alto, la persona comincia a rendersi conto che neppure il disprezzo e il rifiuto altrui possono aiutarla. Neppure obbedire a ogni manuale di autotortura, di automiglioramento, autocrocifissione, sviluppo, crescita, preghiera. Nulla.
Non esistere a questo punto non diventa più tollerabile. La persona torna a voler vivere e si rivolge allo psicoterapeuta nella speranza che, ancora una volta, non dovrà assumere alcuna responsabilità, che non dovrà prendere in pugno la propria vita. Non c’è il babbo e chissà se c’è Dio, ma qualcuno interverrà. Ancora una volta la persona cerca disperatamente di mettere altrove il suo potere, la sua lucidità, la sua volontà. Questa volta però non sempre ma spesso la situazione è diversa.
In questa metafora la terapia non tende alla guarigione ma alla resurre-zione. Qui non si tratta di guarire ma di resuscitare. Trasformare un cadavere in un essere vivo, come si fa? Con provocazioni, seduzioni, trucchi, per forza di contagio, con ogni mezzo concepibile. A volte per metafora transferenziale: ?Io non ci sono, ci sei solo tu. Se mi vedi barbuto e calvo è una tua proiezione?. In certe situazioni questa enfasi sul transfert funziona, aiuta la persona a rendersi conto che è lei al volante. Altre volte serve la metafora contraria, quella dell’ipnoterapia. Se nel transfert non c’è il terapeuta, nell’ipnoterapia non c’è il paziente. ? come se tutta la responsabilità per quello che succede fosse del terapeuta che interviene magicamente con il suo potere.

Una assurdità, non meno dell’altra, ma altrettanto funzionale quando il paziente ha talmente paura di sentire, di vivere, di esprimere, che la promessa magica, fasulla, simbolica, assumo io la responsabilità, non sei tu che lo fai, io ti faccio fare, offre una possibilità di andare avanti.
In realtà, ovviamente, ci sono sempre due persone, e ognuna è responsabile al cento per cento della propria situazione. Tutto il potere non sta nella proiezione e nel transfert, ovvero nel terapeuta; e non è neppure distribuito democraticamente al cinquanta per cento. No. Nella psicoterapia si deve salvare chi può, proprio come nella vita. In terapia il paziente non ha fatto solo una scelta ma deve anche scommettere sulla sua scelta, agire la sua volontà. Solo così può riuscire. E il terapeuta, a sua volta, deve avere il coraggio di comandare, di scommettere sul suo intervento e sul suo modo di lavorare, per restituire al paziente, alla fine, in una specie di suicidio, il potere, l’onniscienza, la salute che gli sono stati dati e riprendere dal paziente la sua parte di debolezza, di incertezza, di divisione, di frustrazione, di comune umanità.
Torno al discorso della resurrezione del paziente. Con la terapia della Gestalt faccio un mucchio di cose: spingo, seduco, incoraggio, frustro il paziente a immaginare, intuire, sentire, visualizzare, a esprimersi, creare drammi, tirar fuori poesie, pensare, concepire, concettualizzare, sintetizzare, a muoversi fisicamente, a essere consapevole di queste attività e del suo movimento, ad accorgersi della propria voce e di un’infinità di simboli, ad assumersi la responsabilità di prestare attenzione a questo piuttosto che a quello, a voler vivere.
Con tutti i mezzi e le energie che ho incoraggio e frustro. Incoraggio vuol dire tu puoi, frustro vuol dire tu devi. Il bambino tu lo ami, lo porti in braccio, lo sostieni, ma un bel giorno lo metti là e gli dici: «Adesso cammini» e deve imparare per forza. Può darsi che tu faccia camminare il bambino quando non è ancora in grado di sostenersi (questo non è solo uno sbaglio ma anche un reato), può darsi che lo porti in braccio fino a quando ha quarant’anni (ma secondo me non impara fino a quando non ha un minimo di contatto con la realtà) e poi finalmente lo metti in piedi.

Tu scegli il momento che ti sembra più adatto, e a quel punto dover imparare a camminare è questione non solo di incoraggiamento ma anche di frustrazione. Ambedue queste dimensioni, maternità-paternità, incoraggiamento-frustrazione, fanno parte della situazione terapeutica nel tentativo di far venire fuori il paziente
Qualcuno ci prende gusto. C’è quello che ama venire una volta ogni tanto, vivere e poi torna alla morte appena fuori dalla porta. Quello che comincia a pensare che è una cosa che si può fare anche fuori. Qualcuno secondo me molti a un certo momento, assolutamente imprevedibile, sceglie di vivere.
Credo di conoscere un buon numero di modelli psicoterapeutici, di spiegazione della guarigione, eppure sono convinto, almeno per ora, che nessuno può prevedere quando il paziente deciderà di vivere. Per lo stesso motivo per cui nessuno può prevedere quando un tizio impazzirà: uno sta dietro uno sportello, c’è sempre la stessa fila, il modulo, il timbro, il francobollo. Un giorno non ne può più: esce fuori, ammazza qualcuno, si toglie i vestiti, lo portano via. Perché quella volta, perché non il francobollo prima o quello dopo? Nessuno lo sa! Perché ha posto un limite, perché basta, perché nel suo mondo soggettivo, in quel preciso momento, è avvenuta la rottura.
Allo stesso modo, quando è stato incoraggiato a vivere, guidato, quando si è reso conto di com’è vivere l’ha per così dire assaporato, assaggiato, annusato, masticato, toccato un bel giorno il paziente decide di vivere. Cioè di correre dei rischi. A questo punto voglio precisare una cosa: quando il paziente smette di essere non ancora nato o già morto, torna semplicemente dov’era, riprende la vita da dove l’aveva lasciata.

Qualcuno lo trova insopportabile, altri hanno accumulato negli anni capacità, conoscenza, esperienza che li rendono in grado di tollerare il dolore. Ma in ogni caso si riprende a vivere lì dove si era smesso, si ritrovano problemi e frustrazioni. Una persona viva è una persona con grossi e dolorosi conflitti ed è in contatto con questi conflitti; è una persona con insopportabili frustrazioni ed è in contatto con queste frustrazioni. ? una persona in qualche misura disperata, però consapevole di questa disperazione; che ha preso la decisione di non suicidarsi non solo a livello di testa, di coscienza, ma profondamente, con tutto il suo corpo.

Una persona che ha smesso, per la prima volta, da quando è su questo pianeta, di migliorarsi, cambiarsi, falsarsi, adeguarsi all’Io-ideale o al modello culturale. Per la prima volta si è arresa alla realtà ed è diventata quello che è.
Son solito dire cinicamente, anche se spero di sbagliare, che siamo su questo pianeta da tre milioni e mezzo di anni, ma che se andiamo avanti a migliorare le cose come abbiamo fatto finora, entro dieci-quindici anni non ci sarà probabilmente più vita sulla terra. In questo momento il pericolo dell’olocausto atomico sembra lontano, ma sicuramente a furia di miglioramenti è più vicino il disastro ecologico. Per questo credo che una persona guarita, cioè una persona che ha deciso di entrare nella vita, di assumere i suoi conflitti, subire le sue frustrazioni, che ha deciso di non suicidarsi, di sbloccare la situazione di sospensione e di irrealtà, una persona così ha deciso di accettare se stessa e le cose per quello che sono.

Destino-500-x-500Un “accomodatore del destino”, così Simenon chiama il commissario Maigret, il suo personaggio più famoso. Piccoli, quasi impercettibili aggiustamenti che Maigret introduce nella vita degli altri personaggi, “accomodano” o fanno esplodere, in sostanza cambiano il loro destino.

 

Spesso nei romanzi, nei film, nelle notizie dei giornali incontriamo e ci confrontiamo con il destino: un ritardo, un autobus perso e cambia la vita dei protagonisti.
Tra il personaggio e l’evento non esiste alcun legame, solo l’accadere dell’uno e dell’altro nello stesso tempo e nello stesso luogo li unisce in un indissolubile nodo che diventa, questa volta sì, la causa degli eventi successivi, in altre parole è la “sincronicità” junghiana il nesso che li accomuna e precipita nel medesimo destino.

 

Piccoli insignificanti “aggiustamenti”, provenienti da chissà dove e cambia la vita, la nostra vita, che spesso non riusciamo a cambiare malgrado impegnative e faticose opere di trasformazione che alla fine si rivelano temporanei restauri di facciata che neppure sfiorano il contenuto.

 

L’incontro col destino è spesso la misura della nostra precarietà, ogni cosa, senza eccezione, nella vita dell’uomo, compresa la vita stessa, è appesa a un filo.

 

E’ scritto come si srotola il filo o è solo frutto del caso, in altre parole il destino è un inconoscibile, ma ordinato fato o una disordinata accozzaglia di fatali imprevisti?

Il quesito è del tipo “E’ nato prima l’uovo o la gallina?”

 

e inevitabilmente le risposte sia a sostegno della prima tesi, sia a sostegno della seconda lasciano sempre un che di sospeso e insoddisfacente.

Il nodo da sciogliere sta nel fatto che se il destino è scritto, l’uomo non ha alcun potere sulla sua vita e diventa una “povera cosa”, se invece il destino ha le vesti del caso, la vita non ha alcun senso, non tende a niente e l’uomo è una volta ancora una “povera cosa”.

 

Sapere che c’è un senso, uno scopo, che va oltre la momentanea presenza di ciascuno nel mondo, e contemporaneamente essere liberi di scegliere nella propria vita, sono due insopprimibili esigenze umane.

Scegliere una delle due alternative, di conseguenza comporta in ogni caso una perdita di qualcosa di fondamentale.

 

La filosofia, le religioni, le scienze fisiche e biologiche hanno dato e continuano a dare le loro risposte più o meno articolate e convincenti.
Ma se a livello teorico ogni nodo si può sciogliere, a livello empirico, di esperienza di vita quotidiana i nodi sono rimasti intatti e spesso ci sentiamo preda di un insensato destino o, a scelta, impotenti personaggi di un imperscrutabile disegno, di cui conosciamo solo il lontano scopo finale.

 

Una cosa tuttavia accomuna le diverse risposte, che sia in mano a Dio, al Caso, alla Natura o alle Stelle, il destino è sempre “fuori” dall’uomo, non appartiene al suo proprietario, ma a qualcun altro che lo amministra e distribuisce secondo le “sue” leggi.

 

Nel mito di Er, che si trova nell’ultimo libro della Repubblica, Platone racconta che le anime prima di nascere si trovano in una specie di aldilà, hanno però tutte un destino da compiere che in certo senso corrisponde al “carattere” di quell’anima in particolare, devono perciò scegliersi la “vita”, l’”uomo” adatto a compiere la porzione di destino loro assegnata.

 

Prima di scendere sulla terra viene dato loro un compagno, un “genio” o “daimon”, perché vigili affinché l’anima nel corso della vita adempia al proprio destino.

Nel venire al mondo però, l’anima dimentica tutto questo e crede di nascere nuda, vuota e sola, tuttavia il suo daimon ricorda chiaramente il contenuto del suo “carattere”, della sua immagine innata, e diventa così il portatore e depositario del suo destino.

 

Nel mito platonico, questo destino, il cui ricordo il daimon conserva, questa immagine o forma del progetto da compiere, rappresenta il proprio posto nel mondo, il proprio contributo alla vita dell’universo, la parte assegnata a ciascuno nell’ordine del mondo.

Oggi, J. Hillman, pensatore e analista junghiano, ci propone la “teoria della ghianda”, la ghianda, al cui interno è racchiusa la vocazione, la motivazione a diventare quell’unica e splendida quercia che cercherà di essere.

 

La teoria della ghianda di Hillman si riferisce alla percezione, alla sensazione, spesso elusa, omessa o inascoltata, che c’è una ragione per cui sono “qui”. La sensazione che c’è un motivo per cui sono al mondo, nella mia forma unica ed irripetibile, la sensazione di essere responsabile verso un “quid” dai contorni confusi, ma che necessariamente mi chiama, mi spinge verso certe direzioni e non altre.

 

La teoria della ghianda sostiene che ogni persona ha in sé un’unicità, un “carattere” che chiede di essere vissuto, una vocazione ad essere quell’unico, irripetibile individuo, ad essere la quercia alta e frondosa, o bassa e massiccia che la ghianda e il proprio daimon hanno scelto, un “tempo” fuori dal tempo.

 

In questo modo J. Hillman ci conduce per mano a riscoprire e recuperare “verità” non dimostrabili, ma indubbiamente sentite e sperimentate da ogni uomo.
In termini filosofici è insita in questa posizione teorica il rifiuto a pensare la vita dell’uomo come una storia scritta da geni ereditati e influenze ambientali, che fin dall’inizio decidono per lui il copione che senza alcuna possibilità di sbavature, sarà costretto a recitare.

 

L’ipotesi di Hillman ci riscatta da un destino di causa-effetto che ci vede pedine impotenti nella partita giocata da geni e ambiente, vittime o eroi-solo-contro. E’ la “libertà” che ci è concessa in questo gioco dove non c’è posto per l’unicità del “noi”, per la sensazione del non essere qui per caso, per la sensazione che ci sono cose che ci fanno sentire vivi e pieni di significato ed altre vuoti e privi di senso.

 

Diventare ciò che intimamente sentiamo di essere superando e liberandoci dai condizionamenti e dalle illusioni di cui ci siamo nutriti per crescere, è forse il nostro “destino”, la nostra vera fatica e spesso grande dolore.

Il viaggio verso il “dentro” di noi, verso le autentiche e cristalline originarie potenzialità del nostro essere, verso le promesse di essere, fare, diventare, che ci portiamo dietro e che per strada spesso ci capita di smarrire e deformare è il nostro “destino”, è il sentiero dei bianchi e luminescenti sassolini di Pollicino che ogni volta ci riporta a casa.

mi sento inutile cosa posso fare ?

Mi sento inutile cosa posso fare ?

Vi potreste chiedere perché mi metto a scrivere di famiglia e società quando i miei interessi e la mia occupazione riguardano il disagio psichico.
E’ vero, i disturbi psicologici sono la mia materia, ma alcuni disturbi sono il prodotto del mondo in cui viviamo, di conseguenza parlare di famiglia e società aiuta a comprendere meglio e perciò curare meglio i mali e le sofferenze, che sono figli di questa nostra società.

Oggi per esempio sono particolarmente diffusi i disturbi d’ansia e gli attacchi di panico, le depressioni dovute più a una perdita di senso che ad altre perdite, e diverse forme di dipendenza .

Chiaramente l’elemento soggettivo, il carattere e la personalità dell’individuo sono fondamentali in ogni tipo di disagio, tuttavia possiamo chiederci perché questi disturbi siano così frequenti nella nostra società e nel nostro modello di famiglia e non in altre.

Società e Famiglia che va

Siamo passati da un mondo pieno di regole e norme da rispettare, pena la condanna e l’esclusione sociale, a un mondo con regole e norme che si possono tranquillamente non osservare perché la pena non c’è più, e se c’è, non conta niente.

Nella famiglia di ieri non si poteva discutere se una determinata norma fosse giusta o no, era così e basta, l’autorità paterna era indiscussa e moglie e figli dovevano sottostare alla sua volontà.
La maggior parte dei giovani rifiutava e si sentiva soffocare da tutte quelle imposizioni che imperavano sia a casa, sia a scuola e nella società in generale.
Ai loro occhi erano principi e comandamenti privi di senso, che cercavano di mantenere in vita a tutti i costi un mondo ormai scomparso.

Si sentivano soffocare e avevano il cuore “pieno” dell’intenso desiderio, e della volontà di cambiare quelle regole senza valore e di abbattere tutte quelle inutili limitazioni, volevano conquistare la libertà di fare e dire tutte le cose che avevano dentro e che fermamente credevano più giuste di quelle dei loro padri.

Tuttavia il vecchio mondo un pregio l’aveva: non si cadeva quasi mai, perché ad ogni angolo c’era un appoggio, un sostegno, che indicava in modo chiaro la via da seguire, dov’era il bene e dov’era il male, il giusto e l’ingiusto.
Questi appoggi erano “la parola” della Chiesa, della Scuola, della Famiglia, dei Partiti, dello Stato, degli uomini di Cultura, parole chiare e trasparenti alle quali “i padri” credevano fermamente mentre “i figli” criticavano duramente e volevano sostituirle con altre, altrettanto chiare, ma completamente diverse.
Siamo passati da un mondo troppo pieno a un mondo troppo vuoto.

I “perché” della disfatta della famiglia patriarcale

Perché dal punto di vista legale, politico e culturale sono state abolite le differenze tra i sessi e le generazioni, maschi e femmine, giovani e adulti sono stati riconosciuti individui tutti uguali, con gli stessi diritti. E’ così decretata la morte del pater familias e la fine della famiglia patriarcale organizzata in modo gerarchico, è arrivato il tempo della famiglia democratica.
Perché con la scoperta della pillola anticoncezionale il sesso è stato sdoganato dalla procreazione, che smette di essere l’unico o il principale scopo della sessualità.
Un’importante conseguenza è stata la libertà sessuale della donna. La sessualità femminile non è più circoscritta al matrimonio, ma oggi le donne come gli uomini hanno relazioni sessuali anche fuori dal matrimonio.
Perché la procreazione si è sdoganata dalla sessualità, con la fecondazione assistita si possono avere figli senza avere rapporti sessuali. La sessualità, libera, si può rivolgere ad altri scopi.
Perché i figli avuti all’interno del matrimonio e fuori dal matrimonio sono percepiti e riconosciuti come uguali.
Perché non c’è differenza nella percezione sociale e soggettiva tra le famiglie di coppie conviventi e quelle di coppie sposate.
Perché la diminuzione della fertilità e della prolificità e perciò del rapporto numerico tra genitori e figli ha profondamente trasformato i modi di fare ed essere “genitori” e “figli”.

Perché la coppia con o senza figli, scomparsa la disapprovazione sociale e l’obbligo di restare unita, liberamente si separa quando viene meno l’accordo o subentra un nuovo amore.
Perché le separazioni oggi molto frequenti producono la formazione di nuove coppie/famiglie con figli che transitano da una nuova famiglia all’altra e che finiscono per avere più famiglie.

Perché sfumano i confini della famiglia

Un tempo ben definiti da chiari rapporti di parentela basati su legami di sangue, oggi sempre più mobili e allargati o ristretti nel caso delle famiglie composte da un solo genitore e figli.
Perché nelle nuove famiglie i legami di sangue contano sempre meno rispetto alle funzioni genitoriali che possono essere assolte da nuovi padri o madri qualora quelli naturali e legali siano carenti.
Perché a causa dell’allungamento della vita più generazioni si trovano a coesistere nello stesso arco di tempo. Nelle famiglie infatti è sempre più comune la presenza dei nonni e spesso anche dei bisnonni . Nonni che nei confronti dei nipoti assolvono compiti e funzioni come quelle dei genitori, con una sovrapposizione di ruoli che rende indefiniti e confusi i confini tra generazioni diverse.
A tutti questi “perché” possiamo aggiungere la comparsa delle coppie e delle famiglie omosessuali, e della ancora vietata e discussa fecondazione eterologa.
E’perciò davvero inutile rimpiangere la famiglia di un tempo, perché come non può ritornare il passato, così non può ritornare la famiglia di ieri.

Società e Famiglia che viene

Il problema nel mondo di oggi, è il vuoto, si è sempre sul punto di cadere. I sostegni e gli appoggi di ieri, “la parola” della Chiesa, della Scuola, della Famiglia, dei Partiti, dello Stato, degli uomini di Cultura, che a prima vista sembrano ancora in piedi, si sono svuotati di ogni senso e valore, simulacri sopravvissuti a se stessi, sono fatti di carta velina, appena li tocchi vanno a terra e noi con loro.
E’ rimasto il nome, la forma, ma la sostanza si è dispersa, disintegrata, continuano a dire quale è il bene e quale il male, quale il giusto e quale l’ingiusto, ma sono parole al vento che non ascolta più nessuno, aria fritta.
La libertà oggi è qui, ma è una libertà vuota, inutile, perchè non c’è niente da cui desideriamo o vogliamo liberarci, non ci sono catene che ci bloccano, né nuove “parole”sogno/speranza/progetto da affermare e realizzare, e così della libertà non sappiamo che farcene, è un inutile lusso.
Perse le “parole-idee” della passione e del desiderio di libertà e cambiamento che un tempo riempivano il cuore, oggi abbiamo le “cose”, centinaia di cose. Possiamo riempirci di cose, di status-symbol, di denaro- potere, di tutto di più.

Nel nostro mondo quasi tutto si può comprare o vendere, quasi tutto è merce.

Non si vendono solo cose, oggetti, oggi si può vendere anche ciò che mai prima d’ora era stato in vendita come gli organi, reni, fegati, bambini, “valori”, ideali, come per esempio la “verginità” , un tempo intoccabile tabù, oggi merce più o meno costosa, oppure il “sapere certificato”, come la laurea o il diploma e poi altro e altro ancora…
Ma la merce è silente, non possiede le “ parole-idee” che nutrono la mente e il cuore, la merce possiede i costi, i prezzi, ha “le parole-denaro” che non “parlano”, ma “si vedono”, anzi sono fatte per essere guardate.
E così sono le “ cose”, o meglio la firma sulle “cose” che ci rendono individui visibili, firmati, marchiati, identificabili, non le azioni o le idee.
La firma è onnipresente, le borse prima di essere borse, sono un nome, i vestiti non sono più di lana o di seta etc., ma di quella firma o quell’altra, anche il cibo è firmato, non si va più a mangiare il pesce o la fiorentina, ma si va da….
Sembriamo tanto evoluti, ma in fondo ci comportiamo come gli uomini delle società primitive che credevano che portare, toccare o avere qualcosa di appartenente a un altro essere umano, animale o naturale, li rendesse simili a questo “altro”, li facesse partecipi della sua natura.

Essere visti, guardati, visibili, a quanta più gente è possibile è uno dei grandi miti del nostro tempo.

Ma dietro al desiderio di essere visti, non c’è niente , non c’è un motivo, un perché, uno scopo, “voglio essere visto per essere visto”.
Soli, fuori nel mondo, nel vuoto di significati che si riflette dentro, senza alcuna rete di protezione, in cerca di appoggi che si rivelano carta velina, siamo costantemente preda della paura di cadere, della paura di sprofondare nel vuoto.
Assolutamente appropriato è il nome che Bauman ha dato alla nostra società, società liquida l’ha chiamata. Quali percorsi-progetti rivolti al futuro, quali prospettive di costruire, è possibile tracciare in un mondo liquido? Nessuno.
La nostra società non ci può offrire alcuna sicurezza o certezza a cui aggrapparci, le zattere sono finite.
Le nostre relazioni di coppia e famigliari sono instabili, spesso fragili, Le reti di amicizie sono mobili, seguono l’onda. Il posto di lavoro, la speranza stessa di trovare un lavoro è diventato un miraggio. Di conseguenza altrettanto incerta e labile e vulnerabile sono la nostra autostima e fiducia in noi stessi.
I sogni e le grandi aspettative di un tempo sono stati sostituiti dal panico di “restare indietro”, di “perdere il treno”, di “essere lasciati. La paura è entrata dentro di noi, e una volta dentro si nutre di se stessa, cresce e tinge dei suoi colori la nostra vita d’ogni giorno.

I “mali” di oggi ( Mi sento inutile cosa posso fare ? )

Ma dove c’è la paura c’è l’ansia: l’ansia di cadere, l’ansia di non trovare la strada, l’ansia di farcela, l’ansia di essere o di restare soli, l’ansia di riuscire a essere visti, l’ansia di svelare agli altri le nostre paure, l’ansia di essere in grado, l’ansia di sbagliare…..Attacchi di panico, e disturbi d’ansia sono tra i figli preferiti della nostra società.
Accanto a loro un posto d’onore spetta alle dipendenze patologiche, vani ed illusori tentativi di riempire il vuoto che abbiamo dentro, e che identico ritroviamo fuori, perchè fuori c’è solo merce.
Ma poichè il vuoto richiede di essere riempito, ci riempiamo di “cose” , facciamo compulsivi e irresistibili acquisti di oggetti privi di senso, perché non ci servono, non ne abbiamo bisogno e neppure li desideriamo, li accumuliamo e subito dimentichiamo.
Non ci servono, ma ci rendono schiavi, s’impadroniscono di noi e della nostra libertà di individui in grado di scegliere e decidere.
Internet può diventare una fissazione, un’ossessione che occupa ogni spazio della mente: non si riesce a pensare ad altro se non al momento che, acceso il computer , potremo dimenticarci di noi e attraverso il gioco, il sesso, i social, etc…potremo inventarci un’altra vita, che spesso diventa più reale e importante di quella vera alla quale diventa sempre più difficile dare un senso.
L’alcool e le sostanze più varie dalla cocaina alle pasticche eccitanti o calmanti ci fanno sentire, invece che persi e spaesati, dei super-eroi. Svaniscono ansie e paure e il mondo invece che un abisso che può inghiottirci diventa per poche ore il teatro delle nostre gesta.
Alla fine invece che uomini liberi, liberi da vincoli, regole, imperativi, codici morali di comportamento ed educazione, senza rendercene conto ci trasformiamo in servi, schiavi di noi stessi, che siamo il peggior padrone che ci sia.

zitellaC’erano una volta le zitelle
Le zitelle erano le donne che nessun uomo aveva voluto, oppure le donne che, perduto il loro amore, avevano scelto di vivere nel suo ricordo. Nell’immaginario c’erano due tipi di zitelle: quelle segaligne e severe, inacidite dall’invidia e dal livore e quelle ingenue e infantili, tutte trine e merletti, la zia dolce ed affettuosa dei bambini di tutta la famiglia.
Oggi le zitelle sono scomparse, al loro posto ci sono le singles per scelta.Acide o tenere, le donne sole che non si sono mai sposate, sono tutte singles per scelta.

 

 

E nell’immaginario la single per scelta, è una donna autonoma e indipendente, con una vita divertente e brillante, con la possibilità di spendere, è una donna libera insomma.
Libera di fare cosa? A volte solo di lavorare per vivere, a volte solo di essere sola, a volte di vivere pienamente, dipende dal carattere della persona, dalla sua storia.Ma questi sono gli scherzi dell’immaginario.La libertà da qualsiasi legame o vincolo, questo bene così agognato nel nostro tempo, è come ogni altra cosa una medaglia a due facce, che mi ricorda tanto il vecchio detto: “Chi ha i denti non ha il pane, chi ha il pane non ha i denti.”

Psicologa Psicoterapeuta Milano

Dott.ssa Daniela Grazioli

Il mio studio si trova a Milano in Via Ximenes, 1
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