Io sono un infermiera

Per settimane abbiamo studiato il Coronavirus in tutte le sue proprietà e manifestazioni. Ne conosciamo la forma, la virulenza, i mezzi di trasmissione, la patogenesi, le sue resistenze agli agenti chimici e i disinfettanti efficaci;  il suo tempo di  incubazione e la sua emivita sulle superfici (sull’acciaio, sulla plastica, sul  cartone..), sugli abiti, forse anche sull’asfalto.. dicono.

Si si, lo conosciamo non c’è dubbio, ma quando è stato proprio il mio turno, di dover andare in una stanza a tu  per  tu con sua Maestà Corona che ha messo in ginocchio il mondo… beh, ho inteso bene che avrei dovuto prepararmi soprattutto mentalmente a questo primo appuntamento indeclinabile.

coronavirus

Giungo in uno dei tanti reparti convertiti a zona esclusivamente COVID. I miei colleghi infermieri sembrano ormai abituati ad indossare tanti DPI nello stesso momento  e  per così tante ore.

Mi spoglio. Mi vesto. Divisa monouso, camice n.1, camice n.2, camice n. 3, cuffia n.1 cuffia n. 2., Guanti lunghi n. 1 (ovvero la tua pelle da li alle prossime ore), guanti corti n.2. Calzari n. 1, calzari .n.2. Mascherina n.1, mascherina n. 2. Copri-collo. Visor facciale protettivo.  Mi sento stra pronta a trattare “il COVID”. A Guardarlo in faccia, a guardare “che fa il virus.. ” come sei dal vivo Corona? Apro la porta e immagino una nube di particelle infettive che mi avvolgono. Che forno questa stanza.

Corona è nel letto e mi guarda. Anche io mi fermo a guardarlo, e vedo  solo gli occhi di una donna che conosco e  che sapevo bene fosse lì dentro..me ne ero forse dimenticata che andavo da una persona che aveva bisogno? Sapere che nelle  sue vie aeree c’è Corona dopo aver guardato i suoi occhi non mi spaventa più tanto come immaginavo. Perché finalmente vedo la persona: vedo una donna che ama ballare il sabato sera e che cucina piatti  italiani prelibati ogni domenica a suo marito (essendo loro stranieri). Vedo la mamma di due bambine intenta a farle fare i compiti e preparare la merenda. Con gli occhi ci capiamo. Mi preparo e attacco. Attacco sudando perché mi rendo conto che se questa puntura  va male i jolly da giocare sono veramente pochi.. andata, si parte. Ok, faccio il mio dovere e me ne vado presto penso.

La paziente vorrebbe anche chiedermi qualcosa mentre io rimango seduta per quattro ore cercando di limitare al massimo manovre che potrebbero vanificare la mia protezione, ma la CPAP che indossa ad altissimi flussi impedisce a me di sentirla e a lei di parlare liberamente.. urla per farsi sentire, e mi dice che sente troppo male al naso e alle guance per quante ore ha indosso quella maschera così aderente. Le dico di tenere duro. Non posso fare a meno di osservarla. Osservare la sua sofferenza e sentire la sua fastidiosissima tosse. Ecco, lì mi pare di aver sentito la voce di Corona. E l’ho odiato. Ho alzato gli occhi al soffitto chiedendomi cosa possiamo, cosa devo fare, per quanto ancora? E poi perché Dio mio? Distrattamente mi accorgo che accanto a me sulla parete c’è un sottile crocifisso che supporta il corpo fragile di un Dio che non è colpevole del libero arbitrio dell’uomo. Allora ho smesso di chiedermi se Dio ha voluto tutto ciò per i suoi uomini.

E’ stancante contare i minuti che passano col contagocce in una situazione simile, ma mi sento solidale con i miei colleghi che in tutto l’ospedale ci danno dentro, si stancano e il giorno dopo ricominciano da capo, e mi sento orgogliosa di quello che fanno, gli infermieri.

Mi congedo rassicurandola che supererà anche questa.

Esco dalla stanza e mi spoglio dei presidi ma soprattutto del mio carico emotivo e della tensione che inevitabilmente ti accompagna in quelle lunghe ore.

Mi lavo via tutto come se la doccia cancellasse anche i miei timori e la fatica.

Questa prima esperienza e tutte le altre a venire, come la vita nel “reparto pulito” e quella a casa nelle settimane dell’emergenza COVID mi hanno insegnato parecchie cose. Su me stessa, sul mio lavoro, sulla mia vita privata e le persone intorno a me. Come tutte le cose brutte d’altronde.

A noi che ci apprestiamo a trattare i Covid, o meglio, i pazienti positivi al Covid che è più dignitoso, ci chiamano coraggiosi. Ma il coraggio come si sa, non esiste senza la paura, altrimenti che motivo avremmo di cercarlo dentro di noi? E tanto più grande è la paura, quanto più è il coraggio che ci vuole. Per questo siamo davvero grandi coraggiosi che non hanno sbagliato completamente lavoro, a differenza purtroppo di molti altri intorno a noi, come ci insegna ancora una volta, Corona.



Psicologa Psicoterapeuta Milano

Dott.ssa Daniela Grazioli

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