Il gioco del “simile” e del “diverso” nella costruzione dell’io
Penso che il senso della nostra identità spesso passi attraverso la conferma del “simile” e lo scontro con il “diverso”: tutti i discorsi che si fanno tra amici e che cominciano con “Anch’io…” oppure “Io invece no…”, non fanno che affermare e confermare la nostra identità. Il “simile” accomuna, è segno che non sono solo, ma sono “insieme a…”, “assimila”, infonde sicurezza; il “diverso” differenzia, è segno che sono unico e speciale, “individualizza”.
In questo modo cresciamo e ci conosciamo, ripetute esperienze di similarità e diversità ci raccontano come siamo, a poco a poco ci disegnano e come in uno specchio ci restituiscono la nostra immagine.
Da questo punto di vista si può affermare che la nostra vita è costellata da innumerevoli esperienze di comunanza o estraneità/isolamento, l’importante è la loro equilibrata e moderata alternanza: le esperienze di similarità sono alla base della nostra sicurezza di non essere soli, quelle della diversità del nostro coraggio di diventare noi stessi, di realizzare cioè la nostra unicità.
Ma cosa succede quando invece di un’equilibrata alternanza, c’è una netta prevalenza di un solo tipo di tali esperienze?
Come ci si sente, per esempio, quando la costruzione della nostra identità passa quasi esclusivamente attraverso lo scontro con il “diverso”?
Succede che invece di crescere sentendoci unici e speciali e proprio per questo ricercati e accolti dagli altri, ci sentiamo terribilmente soli ed esclusi, la nostra unicità invece di un pregio diventa un insostenibile peso che cercheremo in ogni modo di nascondere, e al coraggio di avanzare nel processo della nostra differenziazione/individuazione subentra la paura dell’isolamento e del rifiuto. Tali sono gli individui che nell’ infanzia o più avanti nell’ adolescenza hanno vissuto troppo intense o troppe numerose esperienze di diversità per i motivi più vari: timidezza, lievi difetti fisici, separazioni o altro, esperienze non sostenute e contenute dal caldo abbraccio di un ambiente famigliare capace di cancellarle. Ogni differenza diventa così sinonimo di inadeguatezza, incapacità, esclusione, vergogna.
A risultati molto simili giungono anche coloro che al contrario hanno avuto un’infanzia nutrita soprattutto da esperienze di similarità. Un ambiente famigliare iperprotettivo e soffocante, chiuso al nuovo, che predilige e sceglie solo ciò che è conforme e si amalgama al proprio piccolo universo, soffoca, uccide, qualsiasi tentativo del bambino di distinguersi, differenziarsi, diventare se stesso. La vergogna e la paura in questo caso sono legate alla pericolosa possibilità di scoprirsi “diversi”, all’ incapacità di essere abbastanza “uguali” agli altri abitanti del loro piccolo universo.
Che il senso della propria identità perciò, sia stato nutrito da troppe esperienze di incontro col “simile” oppure di scontro con il “diverso”, l’individuo che ne emerge è in ambedue i casi un essere ferito e mutilato nella propria fiducia e autostima.
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