Perché ricorrere a un counselor e non a un caro amico o a qualcuno di saggio ed esperto, quando abbiamo bisogno d’aiuto e ci sentiamo spersi e confusi, perché ci troviamo in una situazione che sembra senza via d’uscita o in una condizione di dolore per qualcosa che ci è accaduto? Che cosa può dirci di più o di diverso da un amico che ci conosce, un counselor ?
Senz’altro niente di più, anzi forse di meno, tuttavia “l’aiuto” elargito in una relazione di counseling è decisamente diverso e più efficace di quello che possiamo ricevere da un amico o chiunque altro.
E questo non perché il nostro amico o chi per lui sia meno bravo, ma perché nell’intervento
di counseling l’obiettivo di accompagnare e sostenere la persona nella soluzione del suo problema esistenziale passa attraverso la riconquista della sua autonomia di scelta e decisione, il riconoscimento delle sue risorse, di tutto quello che ci permette sentirci attori e non spettatori della nostra vita.
Ma come? -direte voi- un amico ci conosce, e quindi può comprenderci e di conseguenza aiutarci a sbrogliare la matassa nella quale si è ingarbugliata la nostra vita, meglio di qualcuno che, per quanto competente, non ci ha mai visto. Ecco quest’ultima affermazione, a prima vista così logica e vera, non è affatto vera.
Il luogo della differenza tra le varie relazioni d’aiuto e la relazione di counseling è nella struttura del colloquio di counseling, un colloquio che per definizione ha lo scopo di potenziare al massimo gli effetti e i cambiamenti positivi che sono naturalmente insiti in ogni relazione umana d’aiuto, e il counselor,
deve conoscerne ed apprenderne ogni segreto.
Il counselor perciò non ci darà l’aiuto che ci può dare un caro amico, né il consiglio competente che ci può dare un esperto, infatti non possiede né la conoscenza che il primo ha di noi, né la competenza che il secondo ha, ma la sua preparazione e competenza riguardano specificatamente la conduzione del colloquio d’aiuto, e sarà attraverso questo tipo di colloquio, centrato sul cliente e non direttivo, che saremo aiutati ad aiutarci, perché nel counseling ogni scelta e decisione è sempre opera consapevole e responsabile del cliente, che in definitiva è quanto che ci fa sentire padroni della nostra vita.
Un “colloquio” non è una semplice conversazione, ma ha una struttura diversa e modalità e regole specifiche a seconda degli scopi e delle situazioni in cui è usato. C’è il colloquio d’assunzione, il colloquio della ricerca motivazionale, il colloquio clinico, il colloquio della psicoterapia, etc., ed ognuno di questi ha una propria forma, proprie regole e procedure da rispettare e obiettivi da raggiungere.
Nel counseling il colloquio faccia a faccia è lo strumento principe e le condizioni che lo rendono efficace sono create soprattutto dalle disposizioni e dagli atteggiamenti del counselor, che assumono perciò una grande importanza.
E’ merito di C.Rogers avere spostato l’attenzione dalle abilità tecniche all’importanza delle qualità umane, sulle quali poi si innescheranno le abilità tecniche. La competenza del counselor nell’ “aiuto” consiste in pratica, nel fare meglio, cioè in modo controllato, consapevole, razionale ed intenzionale, quello che in molte occasioni anche noi facciamo spontaneamente, sembra poco, ma è moltissimo, anzi è ciò che fa la differenza.
Nel counseling perciò doti umane e capacità tecniche per gran parte coincidono, in sostanza la tecnica consiste nel padroneggiare e orientare razionalmente i propri atteggiamenti di ascolto, osservazione, comprensione, empatia, disponibilità, sensibilità, genuinità, che altro non sono che qualità umane.
Queste qualità, è bene ricordarlo, non sono date una volta per tutte, ma devono essere coltivate e sottoposte ad un costante affinamento tramite l’esperienza.
Vediamo adesso più da vicino, attraverso una rapida descrizione delle qualità-abilità e degli atteggiamenti che il counselor deve attivare e di quelli che invece deve evitare nel corso del colloquio, quali sono le dinamiche che si sviluppano e perché scambi ed interazioni condotti in questo modo producano nella persona in difficoltà i cambiamenti desiderati. Empatia, comprensione, autenticità, riformulazione sono quattro parole chiave del colloquio di counseling.
L’empatia comporta l’uscire da se stessi, l’eterocentrarsi, l’immergersi nell’universo dell’altro senza esserne emotivamente sopraffatti, ma restando lucidi, e perciò obiettivi.
E’ solo tramite un’empatia attenta e continua che il counselor può entrare nel mondo personale del cliente, e comprendere le cose così come appaiono a lui nella sua vita, è in rapporto a tale vissuto infatti che il suo problema si pone.
Empatia e comprensione presuppongono il saper osservare e il saper ascoltare, non basta un atteggiamento di disponibilità integrale, il conselor deve imparare come si osserva e come si ascolta. Una buona osservazione comporta lo sforzo continuo di cogliere la situazione così come viene vissuta dal cliente, si deve osservare ciò che viene detto e ciò che non viene detto, ma è espresso attraverso il tono di voce, la postura, i silenzi, la mimica etc., che sono un’emanazione diretta dei suoi stati affettivi.
Altrettanto difficile è l’ascolto comprensivo, infatti generalmente noi non ascoltiamo, ma sentiamo parole che continuamente interpretiamo soggettivamente, e deformiamo con le nostre griglie di valutazione.
Osservare ed ascoltare per comprendere comportano la neutralizzazione da parte del counselor di tutti i condizionamenti provenienti dalla sua persona, in modo di poter cogliere i significati così come vengono provati dal cliente e in relazione al suo vissuto.
L’autenticità, che non ha niente a che fare con la spontaneità, riguarda lo sforzo di comprendere che deve essere autentico e sincero, altrimenti il colloquio si riduce ad una formula artificiale e il cliente si accorge subito di non essere stato ascoltato.
Una disposizione autenticamente empatica e rivolta ad un ascolto comprensivo secondo i criteri esposti sopra, produce un immediato effetto positvo anche se inconsapevole, sul morale del cliente che, essendo sempre particolarmente sensibile alla qualità della “presenza” dell’operatore, si sente facilitato da tale atteggiamento nell’esprimere ed esporre il suo problema.
Un altro pilastro del colloquio di counseling è la riformulazione che viene applicata a diversi livelli, dalla semplice ripetizione con parole diverse e in modo più conciso di quanto il cliente ha detto, alla riformulazione-chiarificazione che consiste nel mettere in luce e nel restituire al cliente il “senso” di ciò che ha detto, spesso in modo confuso e disorganico, facendo bene attenzione però a non sconfinare in interpretazioni personali.
Gli effetti della riformulazione sono molto importanti. Il cliente, infatti, è solo di fronte al suo problema, ed inoltre essendo completamente coinvolto e immerso nella sua situazione, non gli è possibile prenderne le distanze ed essere obiettivo, in altre parole, sa di conoscere la sua situazione meglio di chiunque altro, ma ne è prigioniero.
Ciò fa sì che, invece di essere libero di riflettere razionalmente, sia spinto a una sorta di “ruminazione” mentale che ripercorre ossessivamente gli stessi pensieri parziali. La riformulazione da parte del counselor ha il potere di rompere il senso d’isolamento e solitudine nel quale la persona si sente avvolta e di sospendere la “ruminazione”, lasciando via libera alla riflessione razionale.
La riformulazione infatti, nella sua forma più semplice è come uno specchio che rimanda al cliente la sua immagine, cosa che gli consente di incominciare a vedersi con un po’ di distacco, e nella sua forma più complessa, quando cioè riesce a cogliere il vero vissuto del cliente, lo fa sentire veramente compreso e già aiutato, e lo spinge a proseguire con fiducia.
Chiaramente la funzione del counselor è molto più complessa e sfaccettata di quanto ho potuto descrivere in questo spazio, spero tuttavia di aver reso chiaro come il colloquio di counseling serva a ripristinare la capacità di autoregolazione e di autodeterminazione,
naturalmente insite in ogni uomo, potenzialità che vengono meno ogni volta che ci troviamo ad essere prigionieri di situazioni emotivamente troppo stressanti.
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