La psicoterapia secondo Barrie Simmons

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“Sono stanco stasera. E ho l’impressione di non ricordare che dire stanchezza è quasi sempre un modo di dire tristezza. Molto spesso attribuiamo sensazioni e sintomi fisici a fattori esterni e, in generale, siamo molto più disposti ad accorgerci degli stati fisici che di quelli psichici. Spesso dico, e sento dire, stanchezza. Traduco: tristezza. E sono convinto che il corpo è triste quando è abusato, costretto, obbligato, schiavo di un progetto mentale.”

E’ facile fuggire la tristezza: ci si deprime o ci si arrabbia. Nel primo caso vivo in uno stato di anestesia, non mi apro, non faccio scambi, non comunico. Nel secondo, piuttosto che riconoscere la mia tristezza, ne attribuisco la responsabilità o la colpa ad altri. Così sono o una vittima o un ribelle. In ogni caso non ho potere, perché che io abbia potere implica che io mi assuma la responsabilità della mia situazione.
Stasera sono riuscito a non chiedermi cosa voglio imparare qui. Mi sono chiesto cosa volete voi: capire, conoscere, pormi domande. Ma non so cosa voglio capire io, quali sono le mie domande. Mi accorgo di essere arrivato qui pronto a dare, vale a dire pronto a vivere voi come bisogno e me stesso come l’incaricato di soddisfare il bisogno, piuttosto che a prendere il contatto con il mio bisogno. Eppure questo paio d’ore appartengono alla mia vita, al tempo che io ho a disposizione su questo pianeta, tempo che va inesorabilmente accorciandosi. In realtà anche la psicoterapia comincia con il mio bisogno, con il mio tempo, nonostante io possa non ammetterlo. Qualunque altra posizione serve solo a far confusione, a negare la realtà, quando non è pura malafede.

Il mio connazionale Ralph Waldo Emerson, che aveva capito quasi tutto già centocinquant’anni fa, ha detto: «Quello che fai tutto il giorno è quello che sei». Molto bello pensare che quello che faccio è qualcosa di contingente, puramente casuale, mentre io in realtà sono altro, sono altrove. Ma non è vero.
Partiamo allora dalla situazione dello psicoterapeuta. Vedo che la maggior parte degli psicoterapeuti stralavora. Ho l’impressione che fuggire dalla vita e rifugiarsi nella seduta sia una tendenza universale. Inevitabilmente aiutare il Bambino ferito, simbolicamente rappresentato ?là?, è molto più facile che aiutare il Bambino realmente presente ?qua? (anche se non è detto che le due possibilità debbano per forza escludersi reciprocamente).

 

Naturalmente esistono anche altri fattori che ci spingono a fare questo mestiere. Esistono stimoli enormi: possibilità di apprendimento, possibilità di soddisfare la nostra curiosità nei confronti degli esseri umani e perciò anche nei confronti di noi stessi, possibilità di partecipare a una lotta affascinante e incoraggiante, perché ogni volta che vengono superate la paura, l’inibizione, l’autolesionismo, la cecità, ne ricaviamo l’incoraggiamento che possano essere superate anche in noi. C’è il piacere di fare ciò che si è imparato faticosamente a fare, il piacere che ogni artista prova nell’esercitare la sua arte. C’è uno stimolo intellettuale che spinge anche chi non privilegia le teorizzazioni a formulare ipotesi, a creare nuove prospettive. Sicuramente la situazione terapeutica permette di entrare in contatto con l’altro e con se stessi nella realtà di una relazione.
Lo psicoterapeuta è autorizzato a un contatto autentico. autorizzato ad avere a che fare con passioni, pulsioni, sentimenti, energie, correnti di vita altrimenti messe al bando, perché sta facendo ufficialmente del bene e perché sta lavorando, si sta guadagnando da vivere.

La situazione offre allo psicoterapeuta un’infinità di esperienze. Comunque egli si senta al mattino, magari sta male o è depresso, arrivato in studio scopre che almeno uno dei primi pazienti sta peggio di lui. E si sente meglio.
La psicoterapia non è tutta la vita, perché è anche un’illusione, una situazione ?come se?. Tuttavia è abbastanza simile alla vita. Guardiamo, per esempio, la situazione del paziente. Il paziente viene per cambiare, a patto che ciò non implichi alcun dolore, alcuna ansia, alcun prezzo giudicato eccessivo. Il paziente viene anche per rimanere esattamente com’è, possibilmente senza soffrire come già sta facendo. Insomma viene con la massima ambiguità, con la massima ambivalenza, aspettandosi di essere in qualche modo miracolato. Quasi sicuramente il paziente va dal terapeuta sbagliato, quasi sempre è attratto da un approccio che gli offre quello cui è già assuefatto.

Il paziente tutto testa, troppo concettuale, staccato dal corpo, cerca un approccio ragionato, logico, concettuale, distaccato. Il paziente ?fisico?, dal lottatore grecoromano all’anoressica, molto spesso cerca un approccio corporale: bioenergetica, integrazione posturale, o qualcosa di simile. Qualcosa, insomma, che non lo sbatterà davanti a difficoltà relazionali e a problemi endopsichici. Il paziente che si rivolge alla Gestalt, a sua volta, vuole forse fuggire tutti e due gli aspetti, visto che la Gestalt si spaccia (a ragione) per sintesi di entrambe le dimensioni.
Naturalmente, se si tratta di vera psicoterapia, l’ambiguità o l’ambivalenza del paziente, il fatto che sia venuto in cerca di quello di cui in realtà già soffre, non finisce con il vincere.

La vera psicoterapia sa ingannare il paziente, nel senso che sa sembrare rassicurante mentre lo indirizza verso la dimensione che sta fuggendo. Sospetto che l’autenticità, l’efficacia della psicoterapia non sia questione di impostazione. La psicoterapia non è un luogo in cui impostazioni incontrano sintomi, ma in cui persone hanno a che fare l’una con l’altra.
Il terapeuta avvia con il paziente un rapporto particolare e, in un certo senso, molto finto, perché punta a scopi, è un rapporto di lavoro piuttosto che di immediata gratificazione. La maggior parte dei nostri rapporti cerca solo di dare e ottenere gratificazione superficiale: se non altro, posso ottenere la gratificazione di gratificarti.

Nella situazione psicoterapeutica invece è un po’ diverso: non è vietata, né esclusa la gratificazione, ma è anche massicciamente presente la frustrazione. La frustrazione che deriva dalla resistenza, la frustrazione che deriva dal fatto che stiamo lavorando e non giocando. Io sono qui per gratificarti, tu non sei là per gratificarmi. Siamo in un rapporto terapeutico e vogliamo raggiungere gli scopi che ci siamo prefissi. Ottenere un risultato richiede a volte che io ti frustri, implica inevitabilmente che a volte tu mi frustri, che non sei come io mi aspetto che tu sia, che non sono come tu ti aspetti che io sia. E un bel giorno, grazie a questo processo accadrà, si spera, e spesso accade, di ottenere autostima: ? Ecco, io sono una persona che ha raggiunto gli scopi che si è prefissa?

 

 

A questo punto tu sei l’occasione, il pretesto, ma anche l’indispensabile collaboratore su questa mia strada, così come io sono pretesto, occasione e indispensabile collaboratore nel tuo cammino verso lo stesso obiettivo: arrivare dove volevi. Questo arrivo è fonte di autostima e di gratitudine notevoli, ma anche di frustrazione per lo psicoterapeuta: non appena egli si trova davanti non più solo un Bambino ferito, ma una persona capace di assumersi l’essere Adulto, scocca l’ora di salutarlo. Il terapeuta partorisce di continuo figli che se ne vanno.
Sono molte le metafore cui stasera potrei ricorrere. La mia esperienza mi fa insistere su una che certo non è originale: la psicoterapia è una specie di ricapitolazione della nascita. Forme di nascita caratterizzano forse tutta la nostra vita. Ogni volta che mi trovo in un ambiente protettivo, in una situazione di pieno contenimento, sta avvicinandosi il momento di uscirne, di differenziarmi, di rischiare le incertezze dell’ignoto invece di rimanere fermo dentro quest’utero e morirvi. Questo continuo nascere e rinascere, a mio avviso, insito nel nostro percorso, dalla morte dell’embrione alla nascita di quello che verrà chissà cos’è dopo la morte.

 

Questo percorso altro non è che la crescita, o il lento acquisto, di un’anima. Più specificamente, la situazione terapeutica è la ricapitolazione della differenziazione, della separazione dalla madre, dal contenitore, perché ogni seduta è un’osmosi, uno sprofondarsi in una situazione protetta e finisce, ogni volta, con il doversi alzare e andar via. ? un addestramento all’ansia di separazione, a lungo andare è un addestramento a stare sui propri piedi. L’intero percorso longitudinale della situazione terapeutica ha questa caratteristica: il paziente guarisce dall’essere un paziente, guarisce dall’essere un essere dipendente, guarisce dall’essere un bambino non responsabile di sé. Chi più chi meno, si assume la responsabilità della propria esistenza.

 

Uscito dall’utero il paziente non ha più tra sé e il mondo un diaframma, ma è finalmente abilitato a entrare, se non sempre almeno spesso, in contatto con la realtà.
Visto che parlo per metafore, vi racconto l’ultima che ho escogitato. Mi è venuto in mente, un po’ di tempo fa, che molti a un certo momento dell’infanzia non ce la fanno più. Le aspettative nei loro confronti sono talmente esagerate e le loro forze talmente inadeguate, che la realtà diviene inaccettabile. Il bambino, o la bambina, a questo punto è di fronte a un conflitto che molti vedono come conflitto tra vivere e morire. Il bambino da una parte sa che se vuole sopravvivere deve sacrificare se stesso (se ti adegui alla famiglia, alle sue regole, alle sue aspettative, devi lasciare te stesso, la tua natura, i tuoi desideri, i tuoi bisogni); dall’altra sa che sopravvivere come bambino gli è impossibile perché non è autosufficiente né emotivamente né economicamente.

 

Per sopravvivere è costretto dunque a suicidarsi. Cosa questa che lo lascerà in conflitto tra le esigenze del sé e quelle dell’ambiente per il resto della vita.
Ultimamente ho pensato che questo discorso, anche se in gran parte vero, non è del tutto adeguato. Non si tratta solo di conflitto tra voglia di vivere e voglia di lasciar perdere e morire. La cosa è in realtà peggiore: il conflitto è tra voglia di non essere ancora nato e voglia di essere già morto. In altre parole, tra regressione e collasso. Tra due pulsioni di morte. Il problema del bambino è come farla finita con questo mondo d’inferno nel modo più rapido e radicale.
La voglia di essere non ancora nato, che al suo culmine diventa catatonia, è una situazione abbastanza comune: secondo me c’è in giro un sacco di gente non nata.
Cos’è una persona non nata? ? due cose. Innanzitutto è solo il sogno della mamma (forse anche del babbo ma più spesso della mamma in cui è letteralmente contenuta), è i pensieri della mamma sul suo bambino. In secondo luogo è un embrione, un feto; vale a dire un essere vivo, attivo, che si sposta, si agita, dà calci, si gira e che però, al tempo stesso, è inchiodato all’utero, legato al cordone ombelicale, imprigionato in uno spazio limitato. Il feto è nutrito, tenuto al riparo dai colpi del mondo esterno, rassicurato dal perenne battito di un cuore, nel silenzioso e onnipresente abbraccio caldo della placenta.
Essere in questa condizione vuol dire essere spiritualmente il sogno della madre e fisicamente qualcosa che cresce, ma contenuto, ingabbiato. Essere non ancora nato è una situazione molto diffusa e io sto pensando, un po’ per scherzo, un po’ sul serio, di costruire una tipologia delle psicopatologie in base a questo criterio: chi non è nato, chi è già morto.
Anche la possibilità di essere già morto è una grossa tentazione di fronte a una vita invivibile. Ma in cosa consiste l’essere già morto? Stiamo parlando di un essere divenuto, a livello fisico, assolutamente rigido, immobile, uno scheletro; ma stiamo parlando anche di un fantasma, di uno spirito che non conosce limiti, che può attraversare un muro, girare ovunque, che è capace di pensare qualunque cosa e di essere totalmente inafferrabile. Questo spirito, questo fantasma dagli ampi orizzonti e dalle prospettive illimitate, è totalmente astratto e insieme legato a un corpo assolutamente irrigidito e sepolto nel mondo. Secondo me lo si può incontrare a ogni angolo di strada, in qualsiasi ufficio, in qualunque aula o studio.
Queste sono le due grosse tentazioni, le due grosse possibilità a disposizione di chi non vuole essere vivo, di chi ha deciso che la vita non è sopportabile. C’è chi sceglie una soluzione, chi l’altra, chi oscilla tra le due alternative. Il risultato è comunque che si smette di esistere: tutto diventa automatico, meccanico. Non c’è più un soggetto con dolorosi problemi di scelta, con laceranti frustrazioni, orrendi conflitti. C’è uno che non vive ancora o che non vive più.
Il non esserci offre sicuramente dei grandi vantaggi. Per esempio una persona può sembrare presente e gli altri possono credere di vederla, ma lei sa che non c’è. Ciò produce un gran senso di libertà e insieme di superiorità e di disprezzo, che poi portano alla psicosi. ?Io so che non ci sono, voi credete che io ci sia.? Una persona inesistente è assolutamente al riparo dal fallimento e dal successo (ambedue comportano dei problemi); è assolutamente al di là della concorrenza e della competizione; non può essere investita da una macchina, subire un incidente, avere una malattia.
Una persona che non c’è soprattutto non può morire, perché è già morta.
Poi un giorno questa persona, questo morto, va dallo psicoterapeuta perché si rende conto che il prezzo di non esistere è un’infinità di angoscia, di depressione e soprattutto di colpa. Colpa di cui non riesce assolutamente a liberarsi, neppure se diventa missionario, se si dedica ventiquattro ore al giorno a opere di bene, se si astiene da ogni peccato, se obbedisce a ogni possibile regola. Nessun tentativo di scaricare la colpa può riuscire perché non si tratta di una colpa illusoria. La persona sta effettivamente uccidendo qualcuno: è oggettivamente l’assassino di se stesso. La colpa di tradirsi, distruggersi, ammazzarsi, si presenta confusamente come colpa verso la mamma, il babbo, Dio, i figli, il marito; tutta roba che ha a che fare con assurdi ideali, illusioni di perfezioni irraggiungibili. La colpa, quella vera, è l’orrenda colpa verso di sé, l’essere che quotidianamente viene umiliato, torturato, ucciso. A ogni modo, a un certo punto, il prezzo diventa troppo alto, la persona comincia a rendersi conto che neppure il disprezzo e il rifiuto altrui possono aiutarla. Neppure obbedire a ogni manuale di autotortura, di automiglioramento, autocrocifissione, sviluppo, crescita, preghiera. Nulla.
Non esistere a questo punto non diventa più tollerabile. La persona torna a voler vivere e si rivolge allo psicoterapeuta nella speranza che, ancora una volta, non dovrà assumere alcuna responsabilità, che non dovrà prendere in pugno la propria vita. Non c’è il babbo e chissà se c’è Dio, ma qualcuno interverrà. Ancora una volta la persona cerca disperatamente di mettere altrove il suo potere, la sua lucidità, la sua volontà. Questa volta però non sempre ma spesso la situazione è diversa.
In questa metafora la terapia non tende alla guarigione ma alla resurre-zione. Qui non si tratta di guarire ma di resuscitare. Trasformare un cadavere in un essere vivo, come si fa? Con provocazioni, seduzioni, trucchi, per forza di contagio, con ogni mezzo concepibile. A volte per metafora transferenziale: ?Io non ci sono, ci sei solo tu. Se mi vedi barbuto e calvo è una tua proiezione?. In certe situazioni questa enfasi sul transfert funziona, aiuta la persona a rendersi conto che è lei al volante. Altre volte serve la metafora contraria, quella dell’ipnoterapia. Se nel transfert non c’è il terapeuta, nell’ipnoterapia non c’è il paziente. ? come se tutta la responsabilità per quello che succede fosse del terapeuta che interviene magicamente con il suo potere. Una assurdità, non meno dell’altra, ma altrettanto funzionale quando il paziente ha talmente paura di sentire, di vivere, di esprimere, che la promessa magica, fasulla, simbolica, assumo io la responsabilità, non sei tu che lo fai, io ti faccio fare, offre una possibilità di andare avanti.
In realtà, ovviamente, ci sono sempre due persone, e ognuna è responsabile al cento per cento della propria situazione. Tutto il potere non sta nella proiezione e nel transfert, ovvero nel terapeuta; e non è neppure distribuito democraticamente al cinquanta per cento. No. Nella psicoterapia si deve salvare chi può, proprio come nella vita. In terapia il paziente non ha fatto solo una scelta ma deve anche scommettere sulla sua scelta, agire la sua volontà. Solo così può riuscire. E il terapeuta, a sua volta, deve avere il coraggio di comandare, di scommettere sul suo intervento e sul suo modo di lavorare, per restituire al paziente, alla fine, in una specie di suicidio, il potere, l’onniscienza, la salute che gli sono stati dati e riprendere dal paziente la sua parte di debolezza, di incertezza, di divisione, di frustrazione, di comune umanità.
Torno al discorso della resurrezione del paziente. Con la terapia della Gestalt faccio un mucchio di cose: spingo, seduco, incoraggio, frustro il paziente a immaginare, intuire, sentire, visualizzare, a esprimersi, creare drammi, tirar fuori poesie, pensare, concepire, concettualizzare, sintetizzare, a muoversi fisicamente, a essere consapevole di queste attività e del suo movimento, ad accorgersi della propria voce e di un’infinità di simboli, ad assumersi la responsabilità di prestare attenzione a questo piuttosto che a quello, a voler vivere.
Con tutti i mezzi e le energie che ho incoraggio e frustro. Incoraggio vuol dire tu puoi, frustro vuol dire tu devi. Il bambino tu lo ami, lo porti in braccio, lo sostieni, ma un bel giorno lo metti là e gli dici: «Adesso cammini» e deve imparare per forza. Può darsi che tu faccia camminare il bambino quando non è ancora in grado di sostenersi (questo non è solo uno sbaglio ma anche un reato), può darsi che lo porti in braccio fino a quando ha quarant’anni (ma secondo me non impara fino a quando non ha un minimo di contatto con la realtà) e poi finalmente lo metti in piedi. Tu scegli il momento che ti sembra più adatto, e a quel punto dover imparare a camminare è questione non solo di incoraggiamento ma anche di frustrazione.

 

Ambedue queste dimensioni, maternità-paternità, incoraggiamento-frustrazione, fanno parte della situazione terapeutica nel tentativo di far venire fuori il paziente
Qualcuno ci prende gusto. C’è quello che ama venire una volta ogni tanto, vivere e poi torna alla morte appena fuori dalla porta. Quello che comincia a pensare che è una cosa che si può fare anche fuori. Qualcuno secondo me molti a un certo momento, assolutamente imprevedibile, sceglie di vivere.



Psicologa Psicoterapeuta Milano

Dott.ssa Daniela Grazioli

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