Intervista a E. Borgna – Depressione

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fuggiti-dalla-notte-2013-copy«Finora non ne avevo mai parlato con nessuno, perché certe cose si tengono dentro, ma anch’ io ho attraversato penombre laceranti…
La prima esperienza depressiva, l’ ho vissuta intorno ai trent’ anni. Non era successo niente di particolare, ma all’ improvviso la mia sensibilità si è accentuata, alterata. Del resto, la depressione nasce quando vuole: situazioni interiori che fino a un minuto prima riuscivi a contenere, ad armonizzare, a nascondere s’ incendiano, si fanno incandescenti…
Con certi pazienti non si può lavorare, se non si siano conosciute delle intermittenze depressive. O almeno non è possibile immergersi nel loro dolore. Lo hanno detto altri prima di me, grandi psichiatri come Bleuler o Schneider».
Per chi conosce il suo lavoro, non sorprende più di tanto la “confessione” di Eugenio Borgna, il più grande psichiatra italiano. Ha scritto libri bellissimi su temi sempre uguali e sempre diversi, sull’ arcipelago delle emozioni che abitano la nostra vita interiore – come la nostalgia e i sentimenti di colpa, l’ inquietudine e la disperazione, l’ ansia e i rimpianti, le attese e le speranze, la gioia e la solitudine. Leggendoli, mai una volta che si avverta un distacco emotivo…
Oggi Borgna ha 82 anni, seppure con il cuore palpitante di un eterno puer, ma nella stagione basagliana era in trincea, ed è lui che ha smantellato il manicomio femminile di Novara. Primario emerito di Psichiatria all’ Ospedale Maggiore di quella città, insegna ancora da libero docente all’ università di Milano.
Esce ora il suo nuovo libro e questa volta è del tutto intuitivo coglierne la essenza drammatica come “qualcosa” che riguarda direttamente l’ autore. Il tema è la follia, ma non intesa in senso clinico, nelle manifestazioni esteriori.
A metà tra il saggistico e il letterario, qui la follia non mostra il suo volto escluso e diventa piuttosto una grande metafora della condizione umana: nelle derive di profonda sofferenza, ma anche nelle accensioni creative.
«È la vita di ciascuno di noi, quando sia ferita dal dolore, a risuonare di armonia e di follia. La fulminante intuizione di Trakl racchiude il senso del libro, la diversa fondazione conoscitiva, descrittiva, interpretativa della sofferenza.
Il mio è un tentativo di cogliere le radici umane della follia, che rifiuta le razionalizzazioni spietate per cui solo la cruda calcolante ragione cartesiana può confrontarsi con il senso della vita e tiene invece conto della crepuscolare legge pascaliana che allude alla presenza del dolore come una fatale compagna del nostro cammino…
È una tesi assolutamente insostenibile dire – come ha fatto, ad esempio, Ronald Laing – che solo nella follia c’ è vita. Guardarla invece come uno specchio che rimanda anche una faccia diversa del nostro stare al mondo, non presentarla solo come una cascata di sintomi uniformi, automatici, stereotipici che dicono molto in ordine alla diagnosi ma nulla sulle sue sorgenti interiori, è una riflessione che va aldilà di ogni ideologia.
Il mio viaggio nell’ interiorità respinge radicalmente quella dicotomia che vuole la follia come nonsenso globale, completo, sistematico e la normalità come epifania assoluta di valori e significati».
Per l’ ultimo Lacan, “tout le monde délire”. Ma oggi dire che “siamo tutti pazzi” è solo una banalità da chiacchiericcio, un paradosso per tenersi alla larga da ogni imperativo etico…
Il suo libro non rischierà anche una lettura del genere? «Sarebbe una lettura davvero semplificatrice, perché una cosa è dire che “siamo tutti pazzi”, altro è intendere la follia come esperienza ineliminabile della vita, come una dimensione metarazionale che modifica profondamente il rapporto con sé e con gli altri ed è possibile cogliere solo sprofondando da palombari nei mari inquieti dell’ angoscia, dell’ ansia, della tristezza, della timidezza, della paura, dell’ ipersensibilità…
La vita può essere tutt’ altro che felice, se non è accompagnata dalla ricchezza umana di certe ferite ardenti spesso considerate patologiche, come il segno di qualcosa da normalizzare frettolosamente.
Era già san Paolo a scrivere che la debolezza è la nostra forza, ma oggi questa è una verità difficile da accettare: non si concilia con i paradigmi trionfanti della nostra epoca che ci vede gli uni estranei agli altri, intimoriti e infastiditi dalla fragilità, che pure è una possibilità umana dotata di senso».
“Come se cadesse una stella filante,/ Milena, e nessuno la vedesse”… Già la dedica del libro contiene qualcosa di molto intimo.
La domanda sarà forse sconveniente, ma chi è Milena? «Non la trovo sconveniente, è una domanda bellissima. Milena è stata la compagna della mia vita, segnata da una malattia fisica autoimmunitaria che l’ ha portata alla morte, dieci anni fa.
È stata lei, mia moglie, a dare il senso più profondo al mio vivere, lacerato dal suo male e poi dalla sua scomparsa. Se n’ è andata a sessantatré anni, vivendo più a lungo di quanto i migliori ematologi prospettassero… E certo, quando una vita stellare si spegne, somiglia appunto a una stella filante che continua a vivere soltanto nel cuore e nell’ immaginazione di chi si è accompagnato a quella vita.
Avevo 37 anni quando l’ ho conosciuta, la sua terribile malattia non si era ancora manifestata. Da allora la mia partecipazione emozionale alle esperienze del dolore, ma anche della nostalgia e del ricordo, l’ identificazione nei destini di quanti soffrono si è accentuata… E oggi che sono immerso in una solitudine infinitamente più acuta e desertica, quello che più temo è il silenzio della memoria».
Cosa l’ ha aiutata, cosa l’ aiuta? «Intanto non ho mai preso antidepressivi, che andrebbero prescritti con assai meno patologica frequenza di come viene fatto oggi… Ho usato invece ansiolitici, perché nelle depressioni ci sono anche schegge ansiogene, e quelle sì, vanno controllate. In passato c’ era innanzitutto Milena ad aiutarmi con la sua presenza, poi ci sono sempre stati i pazienti, anzi le pazienti, visto che mi sono occupato soprattutto di follie femminili…E poi la musica, io non so proprio vivere senza. Non scriverei, non penserei, forse non mi salverei nemmeno senza la musica».
Cosa ascolta, soprattutto? «Beethoven, Schubert e con un salto di cent’ anni, Gustav Mahler – in comune hanno avuto una disperazione senza fine».
Professore, di recente un titolo di Panorama la definiva “il guru della psichiatria italiana”. Lei si sente così? E chi sono i suoi proseliti? Borgna ride, finalmente: «L’ ho trovata una definizione quanto mai infelice, assurda, intollerabile, quanto mai lontana non dico mille miglia ma astralmente da me. Talmente inconciliabile, talmente inaccettabile…».



Psicologa Psicoterapeuta Milano

Dott.ssa Daniela Grazioli

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